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"ConSent" Architecture is the MassAge

 

di Nicola Lunardi

Introduzione

1- Content

2- Architettura come medium

3- Breve genealogia della ricerca

4- Understanding Content

5- From Content to Consent

6- Manifacturing Post-Occupancy

7- Il medium è una bomba

8- Trojan Architecture: from Dubai to China

9- Mediarchitecture?


Introduzione

La ri-produzione è un concetto fondamentale della nostra cultura. Di fatto possiamo dire, senza paura di eccedere in forzature, che la cultura è quello spazio che si forma tra gli uomini e i prodotti delle loro arti e che è percorso delle ri-produzioni di questi prodotti, sotto forma di parola, testi scritti, immagini, che a loro volta diventano produttive e generano nuovi oggetti.

Questo processo è ovviamente sempre esistito, ma è sempre più complesso e veloce con il moltiplicarsi dei mezzi tecnologici di ri-produzione e soprattutto con l'accrescersi delle masse di individui che questi mezzi riescono a coinvolgere nel processo stesso.

Se la cultura è questo spazio e i mezzi di comunicazione sono gli strumenti attraverso cui essa si manifesta, non c'è dubbio che l'architettura rientri nel novero di questi mezzi (denominati comunemente "media"), dato che essa contiene il concetto di rappresentazione non solo dopo l'effettiva realizzazione del suo oggetto (come avviene per le arti figurative) ma addirittura prima, nella pre-figurazione del progetto.

Se l'architettura è un "medium", nella concezione data al termine da Marshall McLuhan nel suo "Understanding Media" del 1964, dobbiamo accettare che essa risponda anche alle leggi ed alle regole di produzione dei media con le conseguenze disciplinari che ne derivano, le quali, come vedremo, sono tutt'altro che secondarie e i cui effetti, evidenti ai più se non a tutti, spesso vengono ammantati di costruzioni retoriche, ideologiche o semplicemente qualunquistiche nelle parole dei progettisti come dei critici.

Con le avanguardie, storiche e non, del XX secolo, a cominciare dai formalisti russi fino al postmodern ed ai "Five", l'architettura sempre più spesso è stata accostata al testo, finché con il decostruttivismo si è voluto apparentare una intera generazione di architetti con i metodi di analisi del testo di Jaques Derrida.

Questa corrispondenza rilevata tra l'architettura e il testo non è che un aspetto della più ampia coincidenza tra l'architettura e i media in genere: il fatto che il testo sia stato per primo oggetto di tali attenzioni di studio da parte di critici e progettisti è la naturale conseguenza della loro educazione prevalentemente alfabeta, che li ha forniti degli strumenti per confrontarsi con questo mezzo ma non con quelli di altro e più recente genere.

Dopo il '68, due (allora) enfants terribles della nuova avanguardia, entrambi legati alla città di New York e ai circoli "decostruttivisti" delle sue università, capiscono come il fermarsi al testo o alla grammatica voglia dire mancare del tutto il problema: la capacità di un testo di farsi letteratura e di un edificio di farsi architettura non è certo dovuto alla correttezza grammaticale né alla compiutezza formale quanto piuttosto alla sua capacità di farsi "mezzo" dell'immaginario sociale e culturale, di formalizzarlo e incrementarlo.

I due architetti in questione sono Bernard Tschumi, con le operazioni tra testo, immagine ed architettura condotte con i "Manhattan transcript" e con i manifesti esposti nelle gallerie d'arte newyorkesi, e soprattutto Rem Koolhaas che irrompe sulla scena della teoria d'architettura con il suo "Delirious New York".

Dopo la pubblicazione di questo "manifesto" che sintomaticamente nasce da una collezione di cartoline postali, a voler ribadire che la città in questione non è tanto uno spazio fisico quanto un luogo dell'immaginario collettivo raccolto nell'esplosione delle sue rappresentazioni, l'olandese ha sempre più assunto come presupposto del suo lavoro la natura di medium dell'architettura e questo traspare con grande evidenza tanto dalle sue architetture che dalle sue pubblicazioni. E non è certo un caso che egli rappresenti oggi un punto di riferimento tanto nella progettazione che nella teoria.

Questo studio prende le mosse proprio da alcuni scritti di Koolhaas per mettere in evidenza come, alla luce della natura di "medium" dell'architettura, le sue dinamiche acquistino un significato diverso e più profondo, in altri tempi si sarebbe detto "strutturale", e come le argomentazioni della storiografia e della critica, per non parlare di quelle dei progettisti, siano assai spesso delle costruzioni retoriche di cocente superficialità che frenano e confondono il processo creativo poiché anziché ri-costruire il progetto nelle figure del testo lo mistificano e lo deprimono, "venendo parlati" dal sistema dei media più di quanto non riescano ad esprimere se stessi e la propria opera.

Di fronte al sempre più forte effetto di risonanza dei media e della loro capacità di sopprimere il significato nell'ipertrofia del significante, si impone a chi, come gli architetti, si trova a gestire professionalmente queste forme della comunicazione, una continua veglia intellettuale e la consapevolezza di come la rappresentazione (la ri-produzione) del proprio lavoro abbia un'importanza culturale addirittura superiore a quella dell'opera in sé.

I loro idoli sono oro e argento, opera di mani umane.
Hanno bocche ma non parlano; hanno occhi ma non vedono;
hanno orecchie ma non odono; hanno nasi ma non odorano;
hanno mani ma non toccano, hanno piedi ma non camminano;
e neppure parlano con la loro gola.
Coloro che li fabbricano saranno simili a loro, e così ognuno che in essi confidi.
Salmo 115

1- Content

L'ultimo importante libro di teoria dell'architettura sembra una rivista. Non sembra un libro. Non sembra nemmeno parlare di teoria, anzi, si dichiara come una "istantanea" che metta a fuoco lo stato della produzione architettonica del suo autore.

"Content" si presenta infatti come una celebrazione del lavoro svolto da OMA e delle innumerevoli opere realizzate dallo studio olandese (nel sottotitolo "triumph of realization"), una sorta di catalogo dell'omonima mostra retrospettiva inaugurata alla Neue Nationalgalerie di Berlino.

Una retrospettiva che sembra destinata a segnare una svolta, come rileva Pier Vittorio Aureli, il quale - dopo averci fatto notare come nella storia recente dell'architettura spesso la teoria sia stata "costruita" con mostre e cataloghi (su tutti gli esempi del MoMA, dell'International style, del Decostruttivismo") - esprime un giudizio estremamente critico su Content: "Tutta la mostra è di fatto una immersione nel cantiere „interno" dell'Office for Metropolitan Architecture, nel suo assetto più recente. A sei anni dalla sua fondazione, AMO è infatti ancora il fratello minore della nuova famiglia Koolhaas, e le collaborazioni-contaminazioni con i mondi dell'editoria, dell'arte, della comunicazione e degli studi socio-cultural-economici, sembrano piuttosto tentativi estremi per gettare fumo negli occhi di critici e imitatori e proteggere il cuore architettonico sempre più malato della strategia koolhaasiana. Iniezioni di veleno con cui Koolhaas-Mitridate si vaccina contro la perdita di identità e di status imposta all'architetto dalla instabilità crescente del mercato e delle sue regole…" La scelta dell'allestimento "sembra fatta apposta per far risultare ancora più aggressiva e indigesta la dispersione totale del proprio lavoro, nel quale il gesto iconico miesiano deflagra definitivamente in una miriade multiforme di plastici, grafici, diagrammi, photoshop, fotografie, loghi e architetture come nel finale di Zabriskie Point. Non c'è, infatti niente di più corretto che sovrapporre un allestimento cacofonico alla severa geometria cartesiana di Mies. Ma l'allestimento di Content, proprio per il suo contesto e per le forme irripetibili, va leggermente oltre la soglia dell'anything goes declinando quest'ultimo in un'accezione vagamente tragica senza comunque abbandonare i toni da farsa" (Pier Vittorio Aureli, Gabriele Mastrigli, "Postmodern Oppositions: Eisenman contro Koolhaaas"). Il giudizio sferzante che Aureli dà della retrospettiva è in realtà molto articolato ed attento alle strategie dell'olandese: il mosaico degli strumenti comunicativi, il confronto con una realtà che muta a velocità sempre maggiori, la sensazione che tutta questa fantasmagoria di immagini ed oggetti non porti alcun messaggio al di fuori della loro stessa presenza, che nascondano anziché svelare il cuore ("malato"?) dell'architettura di OMA, sono temi denunciati dallo stesso Koolhaas nella concisa ma pregnante apertura del "catalogo".

Il disagio espresso dal critico nel suo articolo sul web è lo stesso dichiarato dall'autore quando, introducendo il libro, si concentra immediatamente su quello che sarà il tema unico e fondante del suo discorso: oggi l'architettura è un "inadequate medium". La 23esima parola del testo chiama in causa il "medium".

2- Architettura come medium

Il medium è uno strumento tecnologico che amplifica le capacità dell'uomo estendendo i suoi sensi ed i suoi arti. Il termine è stato coniato nel 1964 dal sociologo canadese Marshall McLuhan, con il saggio "Understanding Media".

McLuhan afferma che l'architettura è un medium, proprio come l'abbigliamento, la televisione, le armi, e che più precisamente è un estensione della nostra pelle, come la tv lo è dei nostri occhi e le armi lo sono dei denti. Essa infatti, in quanto seconda pelle, serve all'uomo per regolare la temperatura del suo corpo, ma anche la sua "vulnerabilità" agli agenti esterni, alla luce, alla pioggia, alle aggressioni, ma è anche abito e ci identifica socialmente.

Il sociologo canadese ci avverte però di come ogni nuovo medium nasca dalla combinazione o evoluzione di altri media precedenti o più semplici, così che ogni nuova tecnologia "in_forma" di sé tutte quelle precedenti, cambiandone natura e meccanismi, cambiando la nostra stessa capacità di leggerle e riconoscerle, diventando in definitiva l'unico contenuto di ogni comunicazione: "the medium is the message" è il concetto cardine della riflessione McLuhaniana.

Egli sostiene che un medium ne contiene sempre un altro, da cui deriva, di cui si serve o a cui allude. Così come il cinema contiene il romanzo, la musica e la fotografia, anche l'architettura nelle varie epoche si coniuga con le tecnologie e i media che ne determinano il gusto e la cultura: nella grecia classica l'oggetto architettonico faceva riferimento a una sensibilità plastica, nel mondo romano alla numerazione aritmetica ed alle leggi della retorica, in quello rinascimentale alla logica della prospettiva e alla cultura del trattato. Nel nostro secolo l'architettura ha veicolato prima il sistema delle macchine e della serializzazione (moderno) e oggi quello del calcolatore elettronico e dell'informatica.

"Un nuovo medium non è mai un'aggiunta al vecchio e non lascia il vecchio in pace. Non cessa mai di opprimere i media precedenti fin quando non trova per loro forme e posizioni nuove" (Marshall McLuhan, "UnderstandingMedia", USA, 1964- trad. it. "Gli strumenti del comunicare", TropeaEditore, 1968).

Il sistema dei media si intreccia con l'architettura a due livelli: influenzando la percezione, esso determina prima il concepimento dell'architettura (plasmando l'universo formale che popola la mente del progettista) e poi la sua comunicazione attraverso molteplici canali mediatici.

Oggi, parlando dei media che interagiscono col medium architettonico, non ci riferiamo più esclusivamente alle riviste, che conservano un ruolo chiave nel determinare la popolarità degli architetti tra gli addetti ai lavori, o ai quotidiani, dove spesso si scatenano le polemiche a livello locale, ma hanno acquisito importanza fondamentale i siti internet, i servizi televisivi, addirittura il cinema; media dove l'immagine e segnatamente il fotogramma, diventa il vero veicolo dell'informazione: la prima lampante differenza tra un video e una pubblicazione è che l'architettura trasmessa attraverso il primo deve esprimersi istantaneamente, non ha diritto alla contemplazione di cui può ancora essere soggetto una fotografia. Molte figure della progettazione come ad esempio la proporzione, non sono facilmente riconoscibili in un filmato in movimento, così come è più difficile che il video sappia cogliere il dettaglio come oggetto che ha una sua compiutezza anche avulso dal tutto: nel video un particolare è di norma il punto di arrivo di uno zoom-in o quello di partenza di uno zoom-out, quindi poco più di un pretesto per un inquadratura od uno stacco ad effetto, sempre in relazione all'insieme che è oggetto della comunicazione. Non a caso "Dio risiede nel dettaglio" era un motto del moderno, epoca dominata dalla mediazione fotografica, quando la soluzione di un dettaglio poteva essere considerata compiuta in sé stessa, mentre la visione dinamica del mezzo elettronico induce a considerare in qualche modo equivalenti le scale dimensionali e rende lecito trattarle indifferentemente, privilegiando soluzioni che prevedono il ripetersi di forme e regole a diverse scale, come la visione elettronica microscopica ci ha mostrato nell'universo logico-formale dei frattali.

Un altro fattore di grande importanza è quello che potremmo definire della "pre-visione". Quando oggi facciamo visita ad una architettura più o meno celebre, l'abbiamo quasi certamente già conosciuta attraverso i media. Questo fa sì che il meccanismo che ci prende una volta al suo cospetto sia quello del ri-conoscimento, cioè noi leggiamo quella architettura secondo ciò che conferma e ciò che smentisce dell'immagine che ci eravamo precostituiti. In questo modo noi la percepiamo diversamente da come avremmo fatto se ci avesse trovato ancora vergini di qualsiasi sua esperienza.

È evidente che c'è una profonda differenza a seconda che questa architettura noi l'abbiamo pre-vista in un film, in una fotografia, piuttosto che se ne avessimo consultato le piante e sezioni o se ce l'avessero raccontata a parole.

I mezzi conoscitivi e le distorsioni che producono si sovrappongono e si confondono.

Ma c'è di più: è l'architettura stessa che si fa qualitativamente prevedibile, in conseguenza del fatto che debba essere mediaticamente trasmissibile. La mediazione è semplificazione che permette la comunicazione di qualcosa cancellando qualcosa d'altro. Se conosciamo solo le semplificazioni degli oggetti architettonici che studiamo, finiamo per produrre oggetti semplificati che si adeguano "automaticamente" al medium dominante cui si sentono destinati.

Visitando il Guggenheim di Frank Ghery, difficilmente si notano le soluzioni adottate nelle giunture del vetro, la cui qualità certo non intacca la potenza espressiva della messa in piega metallica che fa di questa architettura un simbolo. Queste fatture del progetto non le si può notare seguendo Megan Gale che pattina sulle coperture o nelle numerose pubblicità di automobili che utilizzano il museo basco come location. Alcuni dettagli risultano semplicemente inutili, altri, come lo spazio interno non senza qualità, divengono marginali. E questo avviene a livello progettuale.

Una sensazione completamente opposta ci accoglie all'interno della biblioteca di Berlino di Hans Sharoun: questa architettura, che pure possiamo conoscere da piante, fotografie e dai pregnanti piani-sequenza di Wim Wenders, riesce comunque a stupirci, a catturare l'attenzione dei nostri sensi perché lavora sullo spazio e sulle nostre possibilità di attraversarlo nel disciplinato silenzio dei suoi frequentatori. Con il suo scontroso aspetto esteriore e la straordinaria qualità degli interni, l'architettura di questo maestro del moderno non è pensata per essere mediaticamente trasmessa ma per essere im-mediatamente percepita.

Un ulteriore aspetto dell'influenza che i media esercitano sulla cultura architettonica è rappresentato dalla diffusione di internet ed dall'importanza da esso assunta soprattutto nella formazione del gusto tra gli studenti che vi trovano abbondanza di modelli cui ispirarsi, al punto da rendere riconoscibile un cosiddetto "stile europaconcorsi". L'impatto della rete informatica sulla didattica è talmente importante che meriterebbe un'indagine dedicata. McLuhan sottolinea più volte la necessità di istruire scolasticamente le giovani generazioni a rapportarsi e gestire i nuovi media così come si fa con i libri, perchè l'ignoranza ci rende estremamente vulnerabili.

Questo problema didattico è particolarmente vero in architettura, dove l'uso della rappresentazione è fondamentale. Infatti, come scrive Kester Rattenbury nell'introduzione all'interessante "This is not architecture", "ninety-nine times out of a hundred, architecture students learn to identify and define architecture, and especially what is good or famous – or indeed, what is architecture in any form, as opposed to just the buildings they prefer – firstly by looking at representations. A photo, a drawing, a lecture, a magazine article or a book."

Molte altre sono le evidenti ripercussioni delle evoluzioni dei media sul "vecchio" medium architettonico ed è oramai impossibile non riconoscere che questo sia un campo di studio ineludibile per capire l'architettura nella storia e soprattutto nella contemporaneità.

3- Breve genealogia della ricerca

(il capostipite)

Se McLuhan può esser considerato a tutti gli effetti il padre del "medium" in quanto ne da la definizione più estesa e completa nella società contemporanea, la ricerca sull'importanza dei media nell'arte e nella società di massa è senza dubbio figlia di Walter Benjamin, che dedica all'argomento numerosi scritti, primo fra tutti l'imprescindibile "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica", in cui afferma: "attraverso il peso assoluto assunto dal suo valore di esponibilità, l'opera d'arte diventa una formazione con funzioni completamente nuove, delle quali quella di cui siamo consapevoli, cioè quella artistica, si profila come quella che in futuro potrà venir riconosciuta marginale".

Benjamin riflette in profondità sui mutamenti che la ri-producibilità tecnica (differente dalla riproducibilità semplice che da sempre è possibile) ha introdotto nell'arte e nei processi della sua produzione, introduce il concetto di "aura" come qualità dell'opera d'arte "tradizionale" - il suo essere "hic et nunc" - destinato a scomparire e il suo rapporto col rituale, con il culto e con le masse.

Proprio parlando della diversa modalità di percezione introdotta dalla massa, Benjamin fa diretto riferimento all'architettura: "...colui che si raccoglie davanti all'opera d'arte vi si sprofonda; penetra nell'opera (...) Inversamente, la massa distratta fa sprofondare nel proprio grembo l'opera d'arte. Ciò avviene nel modo più evidente per gli edifici. L'architettura ha sempre fornito il prototipo di un'opera d'arte la cui ricezione avviene nella distrazione e da parte della collettività. Le leggi della sua ricezione sono le più istruttive".

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(l'erede)

Le potenti intuizioni di Benjamin vengono riprese e trasportate all'interno del dibattito disciplinare architettonico da Manfredo Tafuri.

Questa eredità è particolarmente evidente nelle sue opere degli anni '60 e '70 quali "Progetto e Utopia" (1973) e "Teorie e storia dell'architettura" (1968) in cui, richiamandosi direttamente al critico tedesco, Tafuri indaga e demistifica ideologie e miti del linguaggio architettonico: "La realtà tecnologica e produttiva nella quale ci muoviamo non ha superato i grandi problemi connessi alla riproducibilità tecnica dell'opera d'arte, alla crisi dell'oggetto, alla caduta dell'aura. Ciò che è nuovo è la coscienza dei nessi fra strumenti di comunicazione e comportamenti collettivi, che si è venuta formando con il raffinarsi, il rapido rinnovarsi, l'estendersi dei mass-media" (Manfredo Tafuri,"Teorie e storiadell'architettura", Laterza, 1968). Ma è forse ancor più interessate notare come questo filo della ricerca non si esaurisca neppure nella sua ultima opera: se McLuhan sottolinea l'importanza della cultura del libro nella rivoluzione estetica del Rinascimento, Tafuri ce lo conferma, approfondendone notevolmente i concetti ed i meccanismi, con quello studio prezioso che è la "Ricerca del Rinascimento".

Il critico italiano esplora quel campo pieno di insidie che si estende tra "progetto, verità e artificio" e, cercando quel momento in cui l'arte ha perso il suo "referente" nella realtà per diventare un "cortocircuito" di rappresentazioni ed interpretazioni, apre la sua indagine con un episodio chiave nella storia della comunicazione: la crudele beffa architettata (eh già) dal Brunelleschi ai danni del "legnaiuolo" Manetto Ammannatini, un episodio paradigmatico di come la rappresentazione sappia vincere sulla realtà e ci dia la possibilità di gestire le relazioni tra le persone fino ad avere su di esse un potere completo che prescinde da qualunque considerazione morale. Tafuri analizza poi le influenze tra gli studi teorici e letterari del Castiglione e la cultura architettonica rinascimentale, partendo dalla consapevolezza che "stiamo esplorando un terreno che ha a che fare con mentalità diffuse: con metalinguaggi che attraversano obliquamente le aree dei linguaggi, condizionandone l'organizzazione e liberandone le potenzialità" (Manfredo Tafuri,"Ricercadel Rinascimento", Einaudi, 1992). L'intellettuale rinascimentale comincia a conoscere il mondo attraverso sue rappresentazioni, quali sono il libro e la prospettiva, che "offre ai corpi lo spazio in cui dispiegarsi plasticamente e muoversi mimicamente (…) ma poi elimina questa distanza, assorbendo in certo modo nell'occhio dell'uomo il mondo di cose che esiste autonomamente di fronte a lui". Tafuri cita Panofsky e si impossessa delle sue parole per sottolineare l'importanza della tecnica rappresentativa (del medium diremmo noi) che di fatto determina "una sistematica messa in immagine del mondo", dove "un codice artificiale viene sostituito a quello naturale" come referente ultimo dell'arte.

Tafuri sottolinea inoltre come questo primato della rappresentazione costituisca un processo di secolarizzazione dell'universo simbolico medioevale, producendo un "progressivo oblio del significato" e programmando in qualche modo il consumo dell'arte umanistica che si verificherà puntualmente con le sperimentazioni del sei e settecento.

Ci troviamo, evidentemente, calati in uno scenario che condivide in pieno le logiche contemporanee tanto da risultare sovrapponibile alle odierne indagini sulla comunicazione. Si noti, ad esempio, come il concetto della sistematicità della contraddizione (si parla del Rinascimento come di una "cultura della contraddizione") corrisponda al concetto con cui Mario Perniola, professore di estetica, filosofo e prolifico autore di saggi su percezione e comunicazione nella società contemporanea, apre il suo panphlet "Contro la comunicazione".

Ma c'è un fatto in più, che nel proseguo della nostra riflessione sarà fondamentale: ciò che per la prima volta si esplicita nella Novella del Grasso legnaiuolo è il fatto che Brunelleschi obbliga il Grasso ad una "crudele analisi retrospettiva" che "tende a verificare le reazioni provocate dal progetto compiutamente realizzato" dimostrando come "la nascente figuratività umanistica (…) agisce con intenti persuasivi ed è principalmente interessata a conoscere con esattezza gli effetti provocati nel suo pubblico (Manfredo Tafuri,"Ricerca del Rinascimento", Einaudi, 1992).

Come lo stesso autore chiarisce fin dall'introduzione, la "Ricerca del Rinascimento" è solo apparentemente un saggio storico: ben più importante è il suo peso critico nella contemporaneità, che forse non è stato sufficientemente inteso o rimarcato, quasi a voler confermare le lamentazioni espresse dallo stesso Tafuri in "Teorie e storia dell'architettura": "le analisi di Walter Benjamin sulle conseguenze semantiche, operative, mentali, di comportamento, che scaturiscono dalle tecnologie moderne, rimangono ancora un caso isolato nella storia della critica contemporanea: e viene il sospetto che tale isolamento non sia casuale. Gli equivoci che hanno dominato la cultura architettonica dal '45 ad oggi derivano in gran parte dall'interruzione delle analisi di Benjamin: analisi, è il caso di sottolinearlo, autenticamente strutturali, al di fuori di ogni accezione evasiva o alla moda del termine e del concetto" (pag. 265).

Tra questi equivoci, tra queste analisi incapaci di andare al di là del dibattito su segni artistici che in quanto tali possono essere associati a significati anche opposti, rendendo queste analisi del tutto prive di utilità, Tafuri annovera qualche pagina prima uno studio che riguarda da vicino il nostro tema: "una lettura dei significati più scoperti del simbolismo architettonico può al massimo situare un opera nell'ambito di una determinata cultura; come quando il Baldwin Smith studia il significato propagandistico attribuito nella Roma imperiale alle porte di città o agli ingressi dei palazzi imperiali, o il significato religioso dato dal Medioevo a quegli stessi elementi (…), o come quando il De Fusco legge i messaggi dell'architettura contemporanea considerata come mass-medium" (pag. 234).

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(il figliastro)

Nel 1967, Renato De Fusco pubblica un testo intitolato "Architettura come mass medium, note per una semiologia architettonica". Il libro, che il sottotitolo imprigiona senz'appello nel dibattito disciplinare di quegli anni – frequentissimi riferimenti a Eco, Barthes, Rossi, Tafuri, Argan – non fa alcun riferimento all'opera di McLuhan, che usciva in traduzione italiana quello stesso anno e che evidentemente lo storico napoletano non conosceva nella versione in lingua originale. Forse proprio a causa di questo, sembra soffrire di una incredibile miopia se confrontato col saggio del canadese: parlando di "caduta di significato e quindi di valore della corrente produzione architettonica" De Fusco si ascrive a posteriori tra coloro che secondo McLuhan studiano i media senza afferrarne la vera natura.

C'è, ironia della sorte, un problema "mediatico" alla base di questo libro, che consiste nel fatto che lo storico dell'architettura dice di "avanzare un'ipotesi", e cioè che l'architettura sia annoverabile tra i media di massa, quando tre anni prima il sociologo che questo termine aveva coniato lo aveva fatto includendo nelle sue argomentazioni proprio l'architettura, e senza lasciare alcun dubbio sul fatto che questa disciplina rientrasse a pieno titolo nella sua costruzione teorica (McLuhan fa riferimento nel suo testo a Mumford, assai di frequente,ma anche a LeCorbusier, a Moholy-Nagy, al Bauhaus, dimostrando di essere nè indifferente né impreparato sull'argomento).

Insomma, probabilmente se la velocità delle comunicazioni fosse stata quella di oggi, il libro di De Fusco avrebbe avuto sicuramente un taglio più convincente e meno accademico, senza che con questo si voglia negargli il merito di aver centrato un tema importante anticipando con molte intuizioni la situazione odierna, approfondendo questo tipo di indagine in un campo esclusivamente e rigorosamente disciplinare che non si è mai abbastanza diffuso nel mondo accademico ed artistico in Italia rimanendo frequentazione privilegiata dagli studiosi anglosassoni.

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(i nipoti emigrati in America)

La ricerca sul ruolo dei media in architettura si è infatti approfondita negli anni novanta soprattutto ad opera di artisti e critici operanti sulla scena accademica statunitense, dove numerosi atenei hanno istituito dipartimenti dedicati all'indagine della comunicazione mediata, come il MIT "MediaLab" o il Princeton "Program in Media and Modernity" diretto da Beatriz Colomina, che ricollegandosi alla genealogia critica di Walter Benjamin e Manfredo Tafuri ha scritto pagine di grande intuizione sull'argomento e costituisce un singolare punto di convergenza della nostra ricerca poiché oltre ad aver contribuito a Content con un breve testo è anche autrice della lunga intervista a Koolhaas uscita con l'ultima monografia dedicata all'olandese dalla rivista spagnola "El Croquis" , nella quale rivela di essere tanto interessata al lavoro di OMA da aver intrapreso uno studio integrale, un'inventario, del suo sterminato archivio.

Il lavoro di Colomina ha il principale merito di portare in evidenza il significato del medium nell'architettura del Moderno, periodo che per la prima volta conosce la società di massa e di conseguenza il mass-medium. Così come Tafuri descrive la nuova consapevolezza del medium "libresco" nella cultura rinascimentale concentrandosi su intellettuali chiave come Brunelleschi e Alberti, Colomina si concentra su LeCorbusier e Loos. Quest'ultimo, in aperto contrasto con i meccanismi di cui avverte la prevaricante influenza, decide di scardinarli ed al tempo stesso "denunciarli" costruendo la sua teoria architettonica attraverso le pagine di un "magazine" illustrato – Das Andere - dove si parla di tutto ma non si ritrae mai un'architettura. Il viennese sembra conoscere con precisione le leggi del mondo che di lì a poco cancellerà la sua "patria" culturale, quella patria fondata sul libro e sulla parola che il nostro condivide con Karl Kraus e che come lui vorrebbe difendere dai barbari che l'assediano e, aggiungiamo noi, dai nuovi media.

"For Loos, architecture was produced to meet a need and existed in a different context from art (…). Further, architecture was culturally disseminated through publications, a phenomenon, as Loos was early to realise , that in turn affected the design of architecture. His critique was directed to that confusion of architecture with its image that was infecting architects infatuated with the magazines (Beatriz Colomina, "Architectureproduction", in Kester Rattenbury, "Thisisnot architecture", Routledge, 2002).

Come Alberti, Loos resiste alle forze del medium. Come Brunelleschi, LeCorbusier le cavalca.

Colomina mette in evidenza come lo svizzero "was perhaps the first architect fully to grasp the nature of the media. He understood the press, the printed media, not only as a medium for the cultural diffusion of something previously existing but, like some of his contemporaries in the visual arts, a new context of production, existing in parallel with the construction site" (Beatriz Colomina, "Architectureproduction", cit.).

Questo aspetto produttivo del medium è un fattore di fondamentale importanza su cui la studiosa Spagnola pone l'accento e che fa discendere direttamente da Benjamin-Tafuri: ci si chiede, infatti, come possa la critica di questo mondo della rappresentazione entrare nei processi di produzione reali, "in other words, rather than remain narcissistically enamoured of it, how does one establish with the mirror image a productive rather than a reflective relationship"?

Abbiamo visto quanti e di che statura siano gli studiosi che nel novecento si sono dedicati a questo campo di indagine arrivando alla conclusione incontrovertibile che "architecture itself – the buildings as much as the representations – can be considered a medium".

Nonostante questi preziosi studi, però, molto spesso si assume come esauriente il banale livello di analisi raggiunto dal DeFusco, che mette in evidenza come l'architettura abbia acquisito caratteristiche tipiche dei media quali la rapidità del consumo intellettuale, il seguire le mode, il dotarsi di tecnologie d'avanguardia che le fanno diventare interattive attraverso "pelli parlanti" fino a rilevare che le "archistar" vengono intervistate sui rotocalchi come fossero stilisti a la page.

Tutto questo è vero, ma è solo l'aspetto più appariscente e banale di una questione che riguarda in profondità l'essere dell'architettura e il suo rapporto con la società e la cultura che si può riscontrare attraverso i secoli. Questo il senso del filone Benjamin-Tafuri-Colomina, assai più interessante e fertile dal punto di vista progettuale.

Le conseguenze di queste analisi sono ancora oggi ignorate dai più, quando si lamenta la lentezza di realizzazione delle architetture rispetto al mutare delle mode come una sciagura dei tempi che corrono anziché come una colpevole arretratezza tecnico-professionale dell'architetto, quando si professa uno stile bioclimatico ipertecnologico che moltiplica i consumi anziché ridurli, quando si scimmiottano tipologie architettoniche del passato che non rispondono più alle esigenze delle persone perché ormai sostituiti da nuove abitudini e mezzi di comunicazione che non abbisognano più degli stessi dispositivi spaziali, quando si archiviano le "icone" dei Paesi Arabi come semplici stravaganze degli Emiri, quando in televisione si incolpano gli architetti di non saper più progettare città belle come quelle storiche fingendo di ignorare che esse sono ormai totalmente gestite da logiche speculative di rendita fondiaria, quando si intitola una biennale "Less Aesthetics, more Ethics".

Quando si tenta, con scarsa convinzione, di innescare nelle università dibattiti sulla disciplina cui nessuno interviene, perché non c'è nulla da dire, mentre ci sarebbe molto da fare.

Insegnare a gestire i media, le loro potenzialità e soprattutto i rischi che comportano, è oggi una assoluta priorità per il mondo accademico che non deve permettere che le complesse dinamiche dell'architettura vengano nascoste e svilite in un'aneddotica di vite private ed inutili telenovele di forme.

4- Understanding Content

Facciamo ora ritorno a Koolhaas e al suo testo, proseguendo l'analisi della breve introduzione. L'architettura è un medium inadeguato perché, dice l'olandese, "is too slow". La velocità è infatti la principale variabile introdotta dai nuovi mezzi elettronici, una novità sostanziale perché, come evidenziato da McLuhan, mentre le precedenti rivoluzioni tecnologiche avevano introdotto incrementi di velocità allargando il mondo in cui viviamo (mettendo alla nostra portata un mondo più ampio), la rivoluzione elettronica ha prodotto la simultaneità: il mondo è improvvisamente piccolissimo, imploso in un "villaggio globale". Il frenetico susseguirsi degli impegni con la committenza e i tempi lunghi dei cantieri impediscono di sviluppare una ricerca ed una produzione coerente: ogni progetto arriva a compimento già vecchio. Per questo Koolhaas arriva a una divisione programmatica del suo studio: da una parte OMA, che porta avanti la realizzazione concreta del progetto, dall'altra AMO, che indaga il mondo e la comunicazione, senza i vincoli e i compromessi della pratica.

Questo è lo specchio di due anime della disciplina: da una parte "the vague memory of a hope- that shape, form, coherence could be imposed on the violent surf of information that washes over us daily", dall'altra l'idea che "Maybe, architecture doesn't have to be stupid after all. Liberated from the obligation to construct, it can became a way of thinking about anything- a discipline that represents relationships, proportions, connections, effects, the diagram of everything" (Rem Koolhaas, "Content" , Taschen, 2004, pag.20).

L'olandese si propone in qualche modo di far evolvere la prima verso la seconda ma sa che questi due aspetti sono in realtà inconciliabili: la prima è un'idea dell'architettura come disciplina "fondata" su principi che "resistono" alla distorsione ed alla volubilità dei media e contiene un messaggio proprio; la seconda sta affermando che l'architettura è oggi a tutti gli effetti un "medium" così come lo aveva concepito McLuhan quarant'anni or sono e in quanto tale rinuncia ad ogni fondamento intrinseco "…perché il messaggio di un medium o di una tecnologia è nel mutamento di proporzioni, di ritmo, o di schemi che introduce nelle relazioni tra gli uomini" (Marshall McLuhan, "Gli strumenti del comunicare", Op. cit); non c'è messaggio al di fuori del medium stesso. Da notare che Koolhaas comincia la seconda definizione della disciplina architettonica con le parole "relazioni, proporzioni", le stesse usate da McLuhan.

La sua escalation culmina poi nella parola "diagramma", strumento comunicativo emblematico dell'era elettronica. Content è un concentrato di allusioni e connessioni con il sistema tecnologico informatico: dalle grafiche di E-Boy all'uso di icone come testo, alle immagini di bassa risoluzione e pixelate che ci rimandano alle immagini delle ricerche in internet, ripetute e di pessima qualità. Ma più significativo è il sistema delle patenti e brevetti, un cardine della tecnologia meccanica che K trasforma in esaltazione della logica del diagramma, immagine che condensa la maggior quantità di informazioni nel minor tempo possibile, strumento tipico della logica elettronica. In luogo di lunghe descrizioni e disegni tecnici dettagliati e normati, uno schema pregnante –ma spesso mistificatore– che riassuma in sé il "concept", l'idea generatrice.

L'orizzonte entro cui questo libro viene concepito e formalizzato è quello dei mass-media e solo all'interno di questo orizzonte è possibile pensarlo e comprenderlo. L'immaginario informatico non genera solo la grafica di content, ma la qualità dei progetti che rappresenta. La logica stessa che vorrebbe sottendere all' "OMA pensiero", inclusivo, tecnologico, onnicomprensivo, parla con la voce di internet: ci presenta un parallelo tra l'evoluzione dell'architettura e gli avvenimenti del mondo, come se si trattasse di un grande spettacolo, descrive impietosamente il ridicolo delle ideologie e la commercializzazione del tutto, in primis del lavoro intellettuale.

Ne scaturisce un'immagine sottilmente inquietante, dove lo slogan "Say yes to everything" suona allo stesso tempo generoso e tragicamente stupido, pieno di coraggio e determinazione di fronte alle sfide del mondo globalizzato ma anche incapace di stabilire la differenza tra ciò che appare giusto o sbagliato, di affermare la propria volontà praticando delle distinzioni.

Koolhaas utilizza i "media" in tutto il loro potenziale, con cinismo e determinazione, svelando il loro ruolo centrale nella cultura architettonica odierna.

Non c'è nell'olandese una visione per il futuro: come il Debord dei "Commentari", egli sostiene che l'unica strategia possibile sia l'attesa. L'unica prospettiva per il domani è quella dell'aggiornamento, dell' "update". La tecnologia elettrica, annullando il tempo, non conosce prospettiva temporale ma solo contemporaneità. "Future is now". Non è dato supporre un cambiamento nella sostanza se non uscendo dalla logica del "medium" che ci domina e ci condiziona. Ma ciò significherebbe che quel mezzo sta venendo superato da una nuova tecnologia. Nel frattempo non sono ammesse teorie né utopie. Solo "notizie" (o apparenti tali) che fermino "a freeze frame of one particular moment". Non libri che presentino un discorso concluso, il coraggioso ma univoco punto di vista dell'autore della cultura alfabeta che svolge il suo ragionamento lungo una linea continua e uniforme dello spazio e del tempo, ma "magazines", mosaici di verità equivalenti e contraddittorie compresse in uno spazio tempo che è divenuto un insieme di istanti contemporanei. Come predetto da McLuhan, il secondo medium ha soppiantato il primo in quanto espressione più adatta all'epoca elettrica ed alla sua sensibilità. Il magazine, inoltre, non arriva mai ad una conclusione: è infatti sollevato da questa responsabilità dal fatto di presupporre delle uscite successive. "It can be resurrected when there is more to report".

5- From Content to Consent

"Triumph of realization": il concetto stesso che la realizzazione di un progetto costituisca un valore aggiunto del progetto medesimo, ha senso solo se fissiamo il presupposto che il consenso al progetto sia l'obiettivo da raggiungere (quantomeno il consenso dei soggetti che hanno potere decisionale sul destino del progetto). Oggi il consenso cercato non può più essere solo quello del committente. Meglio: nella società occidentale il "committente" è diventato un soggetto complesso, sempre parzialmente pubblico, dato che anche nella realizzazione di strutture completamente private ci si deve confrontare con leggi stabilite dalla comunità e che ad essa devono rispondere, senza contare che molti progetti dai musei alle torri direzionali, alle comuni speculazioni residenziali, spesso si rivelano un successo o meno a seconda del loro impatto sul mondo dei media che si incaricano di farli conoscere alla gente, ai loro potenziali utenti o acquirenti.

Nel mondo contemporaneo gli "effetti" di un'architettura, la sua "immagine" costituita, sono più importanti dell'architettura stessa. Che si tratti del quartier generale dell'organo di propaganda di un regime comunista come la CCTV piuttosto che di una fabbrica del sogno americano come la Universal, questi progetti non esprimono che sé stessi e i processi secondo cui sono stati concepiti. Divengono delle icone, icone del luogo che le ospita e del committente che le ha volute, ma soprattutto icone dell'architetto che le ha concepite ed ancor più della cultura mediatica che le ha in_formate e che attraverso esse si esprime.

L'architettura si libera dell'ideologia politica e dei suoi simboli come avrebbero voluto i moderni, ma non per concentrarsi sullo spazio e la funzione, bensì per essere nuovamente condizionata da simboli e forme del nuovo sistema di potere (il peccato originale della disciplina, lo definirebbe Juan Josè Lahuerta).

Come direbbe McLuhan, non ha più importanza l'oggetto in relazione al consumatore (la qualità dell'architettura per coloro che ne fruiscono, diremmo noi) ma il processo proprio del produttore che, condensato nell'icona, coinvolge il consumatore per ottenere da lui quello che nella cultura elettronica è l'elemento costitutivo del potere (sia esso politico, economico o culturale): il consenso.

6- Manifacturing Post-Occupancy

"I padroni dei media si sforzano sempre di dare al pubblico ciò che esso vuole perché sentono che il loro potere è nel medium e non nel messaggio o nel programma" (Marshall McLuhan, "Gli strumenti del comunicare", Op. cit).

Nel 2006, la rivista "Domus" diretta da Stefano Boeri pubblica un numero speciale curato da AMO. Lo studio olandese continua nella sua strategia mediatica ad utilizzare il "magazine" al posto del libro. Come abbiamo visto, si tratta di una strategia che si fonda direttamente sulle intuizioni di McLuhan, il quale vedeva nel libro l'espressione della civiltà alfabeta, mentre il giornale illustrato sarebbe stato il mezzo di comunicazione prediletto dalla società elettrica.

Con questo testo che è di nuovo un catalogo che fa il punto su quattro realizzazioni chiave della recente produzione di OMA, Koolhaas compie un ulteriore passo avanti: se Content aveva stabilito che l'architettura è un medium "inadeguato" e che proprio questo suo peculiare gap è il terreno di ricerca del progettista, Post-Occupancy si concentra su quello che è l'obiettivo del medium e di chi lo usa, ovvero sia l'effetto ottenuto sui destinatari dell'operazione.

Ancora una volta, la prefazione di Koolhaas è illuminante: in una pagina bilingue e dai doppi significati, dopo aver lamentato, con un livello di patetica autocommiserazione che sembra sfociare nel paradosso ironico, la sorte degli architetti di fama accusati ingiustamente di essere insensibili alle richieste di progetto per affermare solamente la propria volontà e la propria griffe, annuncia una nuova presentazione di progetti già precedentemente pubblicati, che saranno visti secondo un modo più "fresco" e "complesso" (sono le parole chiave del magazine: intrattenimento e varietà, presunta profondità). Cosa significa?

Ce lo spiega Koolhaas: "non insistiamo sulla qualità delle costruzioni. Siamo, piuttosto, interessati ai loro effetti sui rispettivi visitatori e utenti" (Rem Koolhaas, "Post-Occupancy", EditorialeDomus, 2006 / prefazione). Ecco una delle tipiche contrapposizioni McLuhaniane. L'olandese, da vero leader della professione (come si autodefinisce con l'immodestia di chi sa di non poter essere smentito), vuole incarnare l'architetto mediatico per eccellenza, perché per lui questo è il campo di ricerca, oggi.

E per fare questo utilizza un "mosaico" (©McLuhan) di media diversi: servizi dai telegiornali, foto pubblicate su siti internet, ritagli di giornali, sondaggi a intervista. Lo fa programmaticamente, dividendoli in sezioni che si alternano alla presentazione dei progetti e che sono evidentemente complementari. Il fatto che queste sezioni siano raggruppate per medium e non per progetto è un ulteriore indizio su come la rappresentazione sia qui il vero soggetto centrale.

Anche le ri-produzioni dei singoli progetti sono in qualche modo non convenzionali: i disegni CAD sono presentati come tomografie, scansioni di strati sovrapposte, siano esse in pianta o in sezione. In questo modo non rappresentano più un disegno comprensibile, ma un diagramma intuibile. Come diagrammi di confronto sono quelli, posti a conclusione della presentazione di ciascun progetto, che ne mettono in relazione il programma, le dimensioni, i costi e la cronologia con quelli delle altre tre opere presentate.

Vale la pena di aggiungere una precisazione, e cioè che l'architetto olandese intraprende questa sofisticata indagine sull'espressione dell'architettura avendo alle spalle progetti di una qualità indiscutibile. Inutile dire che il risultato non sarebbe lo stesso se si trattasse di architetture mediocri, nel qual caso si potrebbe malevolmente insinuare che la ricerca comunicativa serva a mascherare carenze di progetto. Non è così, anche se critici come il già citato Pier Vittorio Aureli lamentano oggi una certa "stanchezza" nella sua ricerca progettuale. In realtà, la ricerca che compete ad AMO, non è né aggiuntiva né complementare, ma consustanziale ed in definitiva inscindibile da quella di OMA: se l'architettura è un medium, risponde alle stesse leggi dei media e le opere di Koolhaas sono quello che sono in virtù di questa ricerca.

La capacità di esplicitare le forme mentali e i meccanismi che regolano le nostre sensazioni e relazioni è una delle caratteristiche fondamentali non tanto dell'opera d'arte quanto della sua critica. Attraverso l'interpretazione dell'opera d'arte noi riflettiamo sul mondo e sulla nostra natura.

Koolhaas è un leader della professione perché nelle sue architetture, o forse dovremmo dire nel lavoro di interpretazione e pubblicazione delle sue architetture, qualcosa ci parla della società in cui viviamo e della disciplina che frequentiamo, fin dai tempi di Exodus o di Delirious New York.

La ricerca mediatica non costituisce tanto un valore aggiunto delle architetture di OMA quanto il loro aspetto più proprio. L'architettura di OMA è DNY, è SMLXL, è CONTENT, è Post-Occupancy, come vuole insistentemente rimarcare Beatriz Colomina nella lunga intervista sulla monografia in due volumi che lo spagnolo "El Croquis" dedica allo studio olandese. Senza queste pubblicazioni le architetture di Koolhaas sarebbero un'altra cosa.

Questo risulta particolarmente evidente in quello che Koolhaas annuncia come la prossima frontiera del suo lavoro: "Generics".

Dicendosi infastidito dall' odierno proliferare di "icone" architettoniche, l'olandese vuole dare vita a una linea di architetture che ricerchino la banalità e l'indifferenza. È chiaro che un'operazione di questo tipo ha valore in virtù del fatto che viene dichiarata ed esplicitata a livello interpretativo e "ideologico", dove, basandosi su di una tradizione moderna che parte dalle teorizzazioni di Hilberseimer, si identifica come peculiare qualità (intellettuale) di un'architettura la sua voluta assenza di qualità (fisiche).

Quello che risulta strano è sentire Koolhaas parlare di queste architetture come di una nuova linea di abbigliamento: poiché in giro si vede "questo", allora io faccio "quello" – (finché non cambierò nuovamente). Un rapido consumo della teoria architettonica, che non è una scelta definitiva, ma uno strumento di comunicazione. Chi lamenta questa caducità come una corruzione del pensiero di architettura operato dai nuovi media che ne snaturano la storica durevolezza, garante di una stabilità dei "valori" etici e morali, compie una inefficace mistificazione: la nuova velocità generata dal medium elettronico non fa che rendere più rapido l'alternarsi delle costruzioni mediatiche (retoriche, ideologiche), che non sono per questo più infondate di quanto non fossero prima.

L'architettura non può essere etica nella teoria, ma solo nella pratica.

Questo perché la teoria dell'architettura è consustanziale alla sua rappresentazione ed interpretazione: sono figure della comunicazione e la comunicazione è per sua natura uno spazio isotropo, dove tutto viene posto sullo stesso piano (si confrontino a riguardo le considerazioni sul numero e sul denaro avanzate da McLuhan e Simmel).

L'etica non può essere oggetto della comunicazione né della rappresentazione, poiché non ammette interpretazione. Dove inizia una, termina l'altra.

Un punto di vista morale serve troppo spesso nelle questioni tecnologiche come surrogato della comprensione.

M.McLuhan

7- Il medium è una bomba

"L'alfabeto rese possibile la diffusione di un potere che è conoscenza e sconvolse i vincoli dell'uomo tribale facendolo esplodere in un agglomerato di individui. La scrittura e la velocità elettrica riversano istantaneamente e continuamente su di lui le preoccupazioni degli altri uomini. Egli diventa di nuovo tribale. E la famiglia umana ridiventa un'unica tribù" (Marshall McLuhan, "Gli strumenti del comunicare", Op. cit.).

Non è forse questa la logica del Koolhaas di Post-Occupancy? Quella di convertire le molteplici voci individuali che si esprimono sulle sue realizzazioni in un'unica voce confusa, la voce di una grande tribù di cui il lettore stesso fa parte e di cui Koolhaas, in quanto manipolatore del "mezzo", è lo sciamano. Il medium è uno strumento di potere: esso è infatti in grado di unire e dividere le persone, non in merito ai suoi contenuti, bensì per il suo proprio modo d'essere. Questo rende ben più difficile difendersi dalle sue manipolazioni. La stampa, sostituendo all'apprendimento per via orale quello basato sul libro, cioè ad un meccanismo collettivo di trasmissione generazionale uno individuale e non-contestuale, ha generato l'individualismo tipico della società "occidentale", elemento fondante della cultura e delle costituzioni illuministe (prima fra tutte quella degli USA), e questo accade indipendentemente dal fatto che sui libri sia stampata una teoria pro o contro questo individualismo.

Ma sciogliere gli individui dai loro legami di sangue con la piccola comunità "tribale" era il primo passo per permettere la nascita delle comunità nazionali: il libro riunisce tutti coloro che condividono la stessa lingua sotto un unico potere, quello dello stato-nazione: "il nazionalismo era ignoto nel mondo occidentale fin quando, nel Rinascimento, Gutenberg rese possibile 'vedere' la madre lingua in veste uniforme" (Marshall McLuhan, "Gli strumenti del comunicare", Op. cit.).

C'è di più: il primo testo stampato con la rivoluzionaria tecnica di Gutenberg è la bibbia e con la bibbia a caratteri mobili nasce la "propaganda": il termine compare infatti per la prima volta col significato odierno quando nel 1622 nasce la "propaganda fide", un collegio istituito dal papa Gregorio XV per supervisionare la diffusione della fede cattolica ad opera dei missionari. Il medium diventa consapevolmente uno strumento per estendere la propria influenza al di fuori dei confini – geografici e non - dell'effettivo potere politico. Questo aspetto sarà sfruttato nei grandi conflitti di massa del XX secolo soprattutto negli Stati Uniti alla vigilia del primo conflitto mondiale (Noam Chomsky documenta con puntualità i meccanismi persuasivi con cui il gruppo di governo interventista plagiò un'opinione pubblica sostanzialmente indifferente convincendola della necessità del conflitto) e nella Germania nazista, divenendo decisivo nella guerra fredda: il blocco sovietico implode per effetto della propaganda mediatica che riesce là dove anche l'arma più potente non poteva garantire la vittoria – ma non era ormai anche l'atomica una bomba "mediatica", devastante nella sua onda d'urto psicologica più ancora che in quella fisica? La fine della guerra fredda coincide con l'inizio dell'era di internet: l'apoteosi dell'era elettrica è sancita dalla sua evoluzione nell'era informatica.

8- Trojan Architecture: from Dubai to China

Oggi il principale medium con cui l'occidente invade i paesi e le culture differenti e spesso ad esso contrapposte è appunto Internet. Attraverso la Rete, questo nuovo potentissimo medium "infetta" (ma nel termine negativo vi è un eccesso di significato) le società che raggiunge modificandone le strutture culturali e sociali. È una specie di cavallo di Troia, proprio come vengono chiamati molti di quei "virus" che attraverso il web entrano all'interno del nostro personal computer. Con dinamiche analoghe si diffonde globalmente un secondo medium di "colonizzazione" assai più invasivo e fisicamente concreto, a sua volta cavallo di troia della società dei media di massa e dei suoi meccanismi: questo medium è l'architettura. Massima espressione dell' insuperabile efficienza tecnologica dell'uomo occidentale, l'architettura esprime infatti la sua capacità di dare forma al mondo, di in-formarlo. Chi vuole contrastare questa espansione della cultura elettronica occidentale, in nome della difesa di valori e tradizioni delle proprie antiche culture, e per farlo decide di colpirne l'architettura - quegli edifici che abbiamo convertito in icone - finisce col condividerne le logiche mediatiche ed essere quindi in essa fatalmente incluso. Nella società mediatica anche il nemico è funzionale al sistema, ne è l'espressione e il prodotto perchè abita lo spazio della comunicazione e da esso trae la sua autorità, la sua stessa ragione di esistere: il terrorismo, dagli anni di piombo al 9/11, non dimostra altro che in questo spazio mediatico ha luogo la battaglia per il controllo sociale.

Il problema dell'omologazione causata dallo "stile internazionale" era solo una spia delle proporzioni che avrebbe assunto il problema nell'era elettrica: oggi più che mai intere culture soffrono la perdita del loro mondo, un completo sradicamento dal reale. Sono infatti costrette a vivere in ambienti, edifici, città che non appartengono più loro ma sono state concepite dai meccanismi sociali e culturali dell'occidente, nonché dalla sua tecnologia. Questo può portare a fenomeni interessanti di adattamento e di ibridazione, in cui i modelli delle culture che si incontrano e si scontrano vengono scardinati dalla fantasia dei soggetti e delle comunità, oppure ad aperto rigetto dei modelli ed alla loro distruzione, da una parte e dall'altra.

Attualmente, due delle più interessanti frontiere della progettazione architettonica sono rappresentate dalla Cina e dagli Emirati Arabi.

Nel primo caso ci troviamo di fronte ad una situazione in parte analoga a quella della dissoluzione dell'URSS, ma molto diversa per quanto riguarda il ruolo dell'architettura. Se infatti la Russia aveva svolto un ruolo fondante nella vicenda del moderno in Europa e aveva condiviso la cultura architettonica europea fin dai tempi del neoclassico, la Cina ha una tradizione architettonica antichissima e particolare. Quando le concessioni che nel XIX secolo il celeste imperatore fece suo malgrado ai commerci occidentali si popolarono di architetture europee e in particolare britannico-coloniali, queste enclaves erano vere e proprie isole precipitate da altri mondi: si pensi in particolare al caso di Shanghai e del suo lungofiume. Lo stile internazionale è penetrato nel paese con il regime culturale maoista, ma sempre mediato da una sorta di declinazione vernacolare o localista, ed è rimasto confinato a interventi di edilizia di stato, case popolari e sedi istituzionali. Oggi, con l'apertura del mercato cinese, l'impatto dell'architettura occidentale contemporanea è diventato assai più devastante: interi quartieri residenziali tradizionali sono stati rasi al suolo e la gente deportata in nuove alienanti città-satellite, in quartieri-dormitorio in cui l'incubo della peggior edilizia italiana degli anni '50 e '60 si ripropone a una scala inimmaginabile, e tutto ciò per far posto nei centri città alle colossali imprese di grattacieli direzionali nella ormai globale corsa alla maggiore altezza. Un mondo completamente nuovo si è costruito intorno agli abitanti di Pechino e Shangai, un mondo a cui essi non sono preparati. E neppure noi.

I numeri con cui si può avere a che fare in Cina sono sconosciuti ai progettisti occidentali ed astutamente Koolhaas ha impostato Content sulla logica del "GoEast!": moltissimi studi professionali del vecchio continente fanno oggi affari in questo grande paese senza porsi il problema che quello che intraprendono dovrebbe essere un'azione culturale e sociale, oltre che una supina produzione di metri quadrati.

La Cina è oggi la principale sfida della nostra cultura architettonica, più di quanto non lo sia per i cinesi. Questo l'ennesimo effetto del medium elettronico che genera il fenomeno degli studi in franchising.

Non è un caso che lo studio di Koolhaas sia presente nel grande paese asiatico con uno dei cantieri più imponenti, quello per la CCTV (e non c'è dubbio che Koolhaas l'abbia scelto come simbolo dei nostri tempi, dove propaganda di regime e intrattenimento commerciale si fondono in quello "spettacolo integrato" contro cui ci mette in guardia Debord come il grande mostro della società contemporanea) così com'è presente negli Emirati Arabi che il denaro ed il narcisismo degli emiri hanno affollato di costruzioni avveniristiche ed imprese ingegneristiche davvero faraoniche, da Abu Dhabi a Dubai, in una gara a stupire e conquistare il turista e l'investitore immobiliare a livello globale.

I numerosi progetti sviluppati da OMA in quest'area (preventivamente studiata da AMO per una installazione alla biennale di Venezia) sono adeguati a questa mancanza di limiti che a Dubai diventa spot pubblicitario: "una città dove gli architetti possono creare le loro icone senza pensare al portafogli" recita pressappoco il video promozionale del "Dubai Waterfront" diffuso su internet dalla Real Estate dell' emiro Al Maktoum.

Ed è significativo notare come questa totale libertà concessa ai migliori architetti occidentali non abbia prodotto architetture sostanzialmente diverse da quelle cui siamo abituati, anzi ha spesso generato ridicoli quanto costosi "scimmiottamenti" delle forme diffuse nel nostro universo mediatico attuale e passato.

Insomma, attraverso il suo impatto sui media, l'architettura torna ad essere un fatto politico importante: non può sfuggire infatti che essa nel mondo globalizzato sia una volta di più uno strumento di potere e del potere, concorrendo, assieme agli altri media e in quanto medium, alla genesi dello "spettacolo" nel senso debordiano del termine, e cioè come mezzo di controllo e di conflitto della società di massa.

Ma vi è una novità in più, che ci da il senso della condizione tragica (in senso "greco") dell'architettura nel mondo contemporaneo: se nel passato la costruzione dell'architettura con l'apertura di grandi cantieri ha costituito per i potenti il modo di manifestare fisicamente la loro grandezza ed allo stesso tempo dare impulso all'economia dei loro Regni o Paesi, all'alba del XXI secolo è stata la demolizione dei due grattacieli di Yamasaki e Roth a rallentare la recessione statunitense e rilanciare i progetti di approvvigionamento energetico neocon.

La costruzione dell'architettura non ha più un ruolo che possa risultare trainante per l'economia del mondo occidentale; ce l'ha, al massimo, la sua distruzione.

Ce l'ha, se vogliamo, la sua gestione a livello mediatico (e non ce dubbio, a qualunque versione si voglia dar credito, che il 9/11 costituisca una operazione mediatica di altissimo livello). Per questo possiamo dire che la ri-produzione dell'architettura ottiene degli effetti sul sistema economico che sono oramai preclusi alla produzione stessa.

Alla luce di tutto questo, prestando attenzione a non fare della questione morale un'ideologia falsa ed inutile, non è possibile, nel trarre delle inevitabilmente provvisorie conclusioni, astenersi dal coinvolgere quello che potremmo definire la "coscienza" della professione. Con questo termine vogliamo intendere un concetto complesso, che è stato utilizzato con varie accezioni e sfumature da molte figure chiave della nostra "genealogia" di studio - da Tafuri a Debord, da Leonidov a Lukacs - e che rappresenta il punto d'incontro tra lo studio dei media di comunicazione (coscienza come tabula che registra le nostre percezioni) e gli studi socio-politici del novecento (coscienza di classe, arte come espressione della "falsa coscienza" di un gruppo sociale). La coscienza come unico luogo "altro" rispetto alla invasiva presenza dei media, come soggetto destinatario della loro azione, come luogo dove le forme e le informazioni che da essi riceviamo si confrontano con il nostro personale sentire, con il nostro più o meno razionalmente giustificabile - più o meno condizionato - giudizio.

9- Mediarchitecture?

Quando oggi cerchiamo sul Web la parola "Mediarchitecture" o termini analoghi, otteniamo come risultato una serie di spazi e architetture caratterizzati da facciate con grandi schermi a led luminosi, pavimenti e facciate interattive ricche di sofisticati congegni tecnologici e cinematici. Ma si tratta, come abbiamo visto, di un'ingenua, superficiale, traduzione del concetto di architettura come medium. Pensare che un'architettura dei media debba essere un edificio con una facciata-televisore come quelli che abbiamo visto in "Blade Runner" equivale a sostenere che un edificio moderno debba somigliare ad una nave di cemento: sono evidenti banalizzazioni.

Abbiamo visto come un'architettura non abbia bisogno di rivestirsi di più espliciti medium elettrici per essere essa stessa riconosciuta come tale.

Ciò che è veramente interessante in un'architettura consapevole del suo ruolo di medium è la capacità di svelare questo ruolo con una riflessione meta-linguistica.

È dunque possibile in architettura un'operazione simile a quella condotta negli anni novanta da artisti "di strada" come Banksy e Shepard Fairey?

Quest'ultimo, un giovane artista californiano, ha invaso gli Stati Uniti di stickers recanti la stilizzazione del volto del wrestler "Andrè the Giant" e la scritta "OBEY".

Secondo quanto lo stesso Fairey afferma nella sua dichiarazione d'intenti, quella portata avanti con la campagna di affissioni, che dagli stickers si è evoluta a manifesti e a veri e propri murales, è "un esperimento di fenomenologia" volto a sensibilizzare il pubblico nei confronti dei messaggi ricevuti dai media: l'imperativo "UBBIDISCI" non collegato ad un soggetto preciso e chiaramente identificabile innesca un corto circuito del senso. Ciò provoca una ventaglio di reazioni possibili, da coloro che fantasticano sull'esistenza di sovversive sette segrete, a quelli che si incuriosiscono di chi sia a intimargli l'obbedienza con quello sguardo un po' truce, a coloro che si chiedono se non stiano già eseguendo senza saperlo quel misterioso ordine.

Quella di OBEY è a tutti gli effetti una riflessione condotta sulla natura del medium (l'artista fa diretto riferimento a McLuhan, ai situazionisti, a Noam Chomsky): veicolare un messaggio esplicito che non ha un senso compiuto mette in evidenza come il vero oggetto della comunicazione sia il mezzo stesso e produce domande sulla sua natura e doppiezza. La variazione degli stili, dal revival sovietico a quello anni '50, conferma ancora una volta la loro totale indifferenza al messaggio e la naturale tendenza "eclettica" del medium. Oltre, ovviamente, a costituire un interessante esempio di come l'arte si situi nell'orizzonte dello spazio pubblico in modi del tutto non convenzionali, e con processi multi-mediali: le immagini di propaganda di OBEY vengono "scaricate" tramite la rete internet da ragazzi in tutto il mondo, e poi invadono strade e piazze fisiche sotto forma di stickers illegalmente affissi. Contemporaneamente le stesse opere vengono esposte in gallerie d'arte e pubblicate su riviste oppure fanno da copertina ad album di rock bands.

Come avevano previsto le avanguardie storiche, non è più possibile individuare "il luogo dell'arte", poiché questo luogo è il mezzo stesso.

Ma c'è di più: l'arte ha in questo caso esplorato un nuovo sistema di produzione. Non si è limitata a descriverlo. In questo senso una tale operazione sembra rispondere alle idee benjaminiane secondo cui l'opera d'arte non deve solo svelare i rapporti di produzione ma entrare attivamente all'interno di essi e cambiarli.

Si può obiettare che pensare che l'architettura o l'arte possano influire sulle dinamiche sociali ed avere un ruolo attivo nei rapporti tra gli attori del nostro sistema politico (opinione pubblica, legislatori, detentori dei mezzi di produzione e comunicazione) abbia un forte connotato ideologico, e di fatto ricordi l'approccio all'arte ed alla società di massa delle avanguardie storiche - che di fatto costituiscono la premessa storica di questo lavoro - ed il loro voler dar forma alla società attraverso il lavoro artistico come nell'esemplare operazione condotta dal costruttivismo con i Club Operai di Nuovo Tipo : nessuna illusione in proposito, nessuna pretesa di riesumare l'ingenua visione avanguardista dell'intellettuale che da forma al mondo. Ma se "l'occhio dei Costruttivisti ... aveva assunto come proprio dovere il rimanere spalancato dietro l'apparecchiatura meccanica che governa il mondo, nella speranza di poter guidare i movimenti di quell'apparecchiatura", non vuol dire che la consapevolezza che questa speranza fosse vana debba indurci all'introspezione, a volgere lo sguardo verso l'interno della disciplina, verso quel mondo di regole e di costruzioni intellettuali che costituisce il suo referente astratto e slegato dal reale.

Ancora una volta ci vengono in aiuto le parole di Manfredo Tafuri che, a proposito del "progetto storico", scrive: "L'architettura come politica è un mito ormai totalmente consumato da non richiedere che su di esso si sprechino altre parole (...) La costruzione dello spazio fisico è certo il luogo di una 'battaglia': una corretta analisi urbana lo dimostra ampiamente. Che tale battaglia non sia totalizzante, che essa lasci dei margini, dei resti, dei residui, è anch'esso un fatto inoppugnabile. Ecco allora che si apre un vasto campo di indagine: indagine sui limiti dei linguaggi, sui confini delle tecniche, sulle soglie 'che danno spessore'".

Alla luce di tutto questo possiamo azzardare che una "mediarchitettura" debba essere un prodotto culturale capace di "inquietare" - nel senso di rimettere in moto - il torpore percettivo cui i media ci inducono, capace di produrre nuove occasioni di comunicazione tra le persone attraverso il progetto di spazi integrati che utilizzino i media elettrici, ma privilegiando il rapporto diretto, fisico, che ha un valore sociale a cui la democrazia non può rinunciare. Se l'architettura è un medium, è giusto che sia progettata come tale e che come tutti gli altri media si metta in gioco nelle dinamiche di reciproca contaminazione: per questo non è più accettabile oggi che si progetti un'architettura per poi "appiccicarle" sopra una dotazione tecnologica mentre, al contrario, la sua progettazione deve essere integrata dalla dotazione mediatica perchè essa, di fatto, cambia lo spazio, il modo di usarlo e di percepirlo. Con questo non si vuole intendere una integrazione dal punto di vista del design, ma delle logiche progettuali. Paradossalmente, progettare pensando alle distorsioni che il medium elettrico produce sullo spazio, significa riportare al centro della disciplina quello che è la sua materia specifica e cioè lo spazio stesso, col suo valore estetico, economico e sociale, mentre progettare come se l'architettura fosse tuttaltro, pratica artistica dai valori immutabili e perciò immune ed indifferente ai media, vuole dire produrre spazi inutili e inadeguati, spazi morti, e condannare l'architettura al ruolo di disciplina superata ed inefficace, accettabile solo per disegnare monumenti e tombe, direbbe Loos.

Una "mediarchitettura" dovrebbe dunque concentrarsi sullo spazio, ed in particolare su quella trincea nel "campo di battaglia" dello spazio che è il confine tra pubblico e privato e che nella società dei media di massa è tanto superata quanto lo sono le trincee vere nelle guerre "asimmetriche" contro il cosiddetto terrorismo. Oggi non ha più senso parlare di spazio pubblico quanto di spazio mediatico: come messo in evidenza da Beatriz Colomina, essere nel privato oggi vuol dire essere davanti allo schermo, là dove nessuno può vederci mentre noi osserviamo tutto, mentre essere fuori, nello spazio "pubblico", significa essere nell'immagine che gli altri possono guardare. Non più pubblico e privato, ma privacy and publicity.

Inoltre, questo progetto della comunicazione va necessariamente esplicitato: deve cioè esser dichiarato attraverso figure della meta-narrazione come i processi icono-logici di "OBEY". Perché il medium è uno strumento di potere più forte quando è latente e non riconoscibile. Descriverlo significa in qualche modo disinnescarlo nei suoi aspetti negativi di plagio delle coscienze, banalizzazione della cultura ed assopimento della lucidità critica per restituirlo alla sua preziosa funzione di connettore di idee, produttore di forme, fondamento stesso della civiltà.

 

Nicola Lunardi 7.10.1982

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