Roma e gli alberi

rassegna web

fonte: la Stampa 17/02/2003

Ippolito Pizzetti, insigne paesaggista, laureato in Letteratura italiana , insegna alla facoltà di architettura a Ferrara composizione paesaggistica:

«...ho un'antica mania che condivido con pochi romani: vorrei si vedesse il Tevere. Una città senza il proprio fiume è una città monca. E il Tevere, addirittura non è curato, figuriamoci valorizzato.

Sto portando avanti una battaglia per i platani che stanno morendo. Tutti i platani del Lungotevere sono in pessime condizioni e non vengono chiamati fitopatologi in grado di curarli. Perché è difficile, perché costa, perché ci vuole attenzione, perché si affida la potatura a ditte che ci vanno pesante con l'accetta. Tra dieci anni spariranno se non si porrà rimedio immediatamente. L'errore è nella potatura perché la malattia vive di contagio, il cancro colorato del platano passa da una pianta all'altra quando queste sono troppo vicine.

In Kashmire, dove questi alberi sono considerati monumenti visto che possono vivere anche cinquecento anni, ho studiato un progetto per un canale dove il platano orientale è intervallato ogni cinquanta metri».

«Passeggiando per strada vediamo piante che poco si adattano alle dimensioni degli edifici perché orribilmente mutilate e private della loro crescita naturale. Al Comune si sostiene che non ci sono soldi per pagare "potature intelligenti". Io penso solo a un fatto di civiltà. Che investe molti settori.

Alle Belle Arti sono convinti che all'epoca degli antichi romani le piante in uso fossero i pini domestici o i cipressi, quelli importati da Augusto. Invece la pianta romana per eccellenza è la quercia, sacra non solo ai popoli nordici ma anche qui, in quanto sacra per Giove. La nascita dell'impero romano portò come conseguenza anche un salto di classi sociali, con i contadini che diventavano cittadini ma stentavano a perdere le loro convinzioni e i loro credo. E una una certezza ancestrale: per i contadini le piante che non producono sono da buttare. Ora a Roma di querce non ce ne è quasi più una; ai Fori sono sparite forse del tutto. Nei giardini troviamo per lo più orrende conifere, una appiccicata all'altra.

In città non piacciono le piante che perdono foglie perché sporcano. Invece il loro bello è proprio questo loro avere le vicende dell´anno; si spogliano, fioriscono, vivono.

C'è un po' di tutto senza criterio e senza rispetto per la flora naturale. Col fascismo ci fu la massiccia introduzione di pini e anche di cipressi che regalavano un aspetto lugubre e imperiale che tanto piaceva a governanti e cittadini, dunque si abbondò a mano larga.

...prendiamo Villa Borghese. Prima era un parco con differenti tipi di piante ben collegate, ora è piena di pini tanto da sembrare Castel Fusano.

Meglio hanno lavorato gli archeologi nell'agro romano, introducendo piante della macchia mediterranea che si adattano ai glicine lì presenti. Questo innesto rivela una coscienza paesaggistica evoluta.

Al Foro Romano, all'Arco di Costantino, c'è una chicca che non tutti conoscono, resiste un albero a cespuglio lungo quindici metri che merita la massima attenzione. In Prati invece gli alberi sono stati massacrati ad alberello snaturando i tronchi oramai privi della loro forma.

Un plauso a chi ha pensato alle magnolie per via Veneto. All'inizio ero stato critico, pensavo che non avrebbero resistito al freddo, invece hanno retto bene.

Lo stesso Giardino Zoologico fu costruito con una certa arte. Anche all'Eur, dove convivono diverse specie, ci si è mossi in modo intelligente, la periferia invece è un disastro.

A Villa Glori se la sono cavata coi pini dedicati ai caduti, un'idea banale che non ne fa un bel giardino, Villa Savoia ha una sua ricchezza. Comunque tutta l'arborizzazione dei prati andrebbe rifatta badando a dare alle piante il loro spazio vitale. In generale, però, devo constatare che Roma non ha una cultura evoluta in questo campo come invece ha Torino dove c'è più attenzione per il verde, forse a causa del clima negativo, delle asperità della terra. La pianta ti dà un senso di rinnovamento vitale che al Sud pare più spontaneo, dunque è dato per scontato».

Che cosa significa composizione paesaggistica?

«Un paesaggista deve occuparsi del giardino, dal parco fino alla vegetazione della città, è un campo molto vasto. Io vengo dal teatro e cerco di fare del giardino un'opera teatrale con un primo tempo che è la primavera e, a seguire, tutte le stagioni. Faccio un lavoro appassionante ma non facile, i privati si rivolgono prevalentemente ai vivaisti che fanno i loro affari, ci mettono un altro piglio».

articolo di MICHELA TAMBURRINO

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