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L'insonnia della ragione cinica

Su alcuni aspetti dell'opera di Manfredo Tafuri

di Francesco Fusaro

Finalista 2010

L'architecture assassinée è il titolo di un piccolo acquarello dipinto nel 1974 da Aldo Rossi. In una sorta di visione apocalittica le icone e gli archetipi del mondo formale rossiano appaiono improvvisamente in rovina, feriti, sanguinanti, colti nell'istante esatto del loro crollo [1] . L'opera è polemicamente dedicata a Manfredo Tafuri.

L'invettiva pittorica potrebbe sembrare normale se non provenisse da uno tra gli architetti tenuti in maggior considerazione proprio dal critico romano che al "caso Aldo Rossi", qualche anno più tardi, consacrerà un intero capitolo di Storia dell'architettura italiana 1944-1985. La risposta più convincente a questa apparente contraddizione la fornisce, forse, Rem Koolhaas in un'intervista del 1978 [2] nella quale, prendendo posizione contro "personaggi tipo Tafuri" accusati di avere in odio l'architettura [3] , afferma con tagliente ironia che la polemica di Aldo Rossi trova spiegazione nel semplice fatto che "se rimani il solo escluso da qualcuno che dichiara tutti gli altri morti, c'è da sentirsi quantomeno a disagio".

Due posizioni risolute quelle assunte da Rossi e da Koolhaas che, pur con linguaggi diversi, esprimono un netto distacco nei confronti di un progetto critico che aveva trovato allora larga eco ma che, alla prova dei fatti, non aveva saputo decretare effettivi vincitori. I "nuovi giochi" [4] intravisti da Manfredo Tafuri al termine di entrambe le sezioni che compongono Storia dell'architettura italiana, ottenuti dai frantumi "dell'antica disciplina chiamata architettura", non hanno condotto nessuno alla vittoria perché, semplicemente, non la prevedevano. L'opera che chiude idealmente l'intero arco di ricerca sull'architettura contemporanea di Manfredo Tafuri permette d'individuare un punto di osservazione privilegiato rispetto al quale esprimere alcune considerazioni sulla costruzione critica tafuriana. Considerazioni provvisorie e non esaustive, venate da personali convinzioni, che si collocano a margine del numero consistente di disanime avvicendatesi negli ultimi anni, approcci diversi che si stagliano su un orizzonte ampio, articolato dall'esegesi all'apologia [5] .

Per un odierno lettore studiare i saggi più rappresentativi del pensiero critico di Manfredo Tafuri significa imbattersi in concetti peculiari quali critica di classe all'architettura, architettura come sublime inutilità, trascurabilità dell'oggetto architettonico, perdita di identità, o in espressioni emblematiche come sconfitta, aporia, dramma, scacco, morte. Termini di un discorso ampio, non sempre univoco o lineare, che una prosa ricca e colta, ambigua e a tratti oracolare, inserisce all'interno di un affresco dai colori vivi, drammatici, capace di sprigionare il fascino di una visione tragica popolata da personaggi resi simili a eroi romantici. Al fascino si accompagna, tuttavia, un sentimento di timore perché quella visione non riguarda un ambito lontano, estraneo e fittizio, non è solo la tela di un quadro o una grande parete affrescata, ma interessa la realtà di ogni giorno, il mondo che ciascuno vivendo abita e alla cui costruzione fisica l'architettura quotidianamente partecipa. La teorizzazione tafuriana del fallimento di ogni tentativo di prefigurazione ideologica e la sottrazione all'architettura di qualunque dimensione utopica, seppur comprensibili all'interno di un più ampio dibattito storicamente e politicamente datato, sfociano in una tesi drastica di adesione al fallimento che smarrisce in questo il proprio reale referente, l'uomo. Il boudoir nel quale Tafuri rinchiude l'architettura perché rinunci a se stessa e si perda in una dimensione sintattica, situata al di fuori della sfera del reale e composta da segni in esclusiva relazione tra loro, rischia di assumere le fattezze di una prigione o, ancor peggio, di una sala delle torture, luogo asettico dove non si indugia nella trivialità del piacere vitale o nel calore della passione, ma nella lucida freddezza e gratuità dei delitti progettati cerebralmente. La pornografica riduzione dell'architettura a un insieme di segni fini a se stessi si traduce nell'abbandonarsi non tanto al sadismo metafisico del Divin Marchese quanto piuttosto a pratiche onanistiche dalle sterili conseguenze.

In equilibrio tra i due poli opposti di dolore e piacere propri di un'architettura lontana dal campo dell'esperienza sociale e dal suo reale referente — un uomo degradato a inerme voyeur — sfuggire alle ovattate camere operatorie è possibile solo cercando rifugio nel paradiso vulnerabile della nostalgia e dell'assenza. Qui, in forma di aristocratico solipsismo, l'architetto può coltivare la rinuncia alla vita storica e al suo divenire per opporre alla crisi della modernità una poetica fatta di improvvise rivelazioni, di frammenti e del vuoto che li separa. Per Tafuri i maestri da seguire nell'analisi critica del panorama architettonico italiano sono "baroni rampanti" arrampicati sull'albero della Ragione, sospesi al di sopra delle contraddizioni del presente, sono muse dalle quali non ci si attende alcuna ispirazione, ma soltanto inquietudine e spaesamento [6] . Ciò che è colpevolmente assente nella costruzione critica di Tafuri è, di nuovo, una presa d'atto del ruolo dell'architettura non solo come evento o accadimento in sé concluso, ma come azione concreta sull'esistente al di là di ogni utopia. In questa accezione, l'architettura non può vedersi banalmente ridotta a "fenomeno trascurabile" — pura immagine, puro concetto o pura tipologia che sia — ma conserva il proprio intrinseco valore di attività votata al miglioramento. Essa non può accontentarsi di un'autonomia formale definitiva perché la sua sarà sempre forma dello spazio abitato e, come tale, in funzione dell'uomo e in continua evoluzione per il mutare delle condizioni o per l'avvicendarsi di esigenze nuove e di nuovi programmi. In quest'ottica, se da un lato occorre riconoscere all'attività critica di Manfredo Tafuri il merito di aver smascherato e contrastato le "canzoni da organetto" di un ambiguo postmodernismo, dall'altro gli scritti dello storico romano non hanno saputo cogliere con sufficiente decisione l'importanza del progetto architettonico come promozione di qualità spaziali destinate alla collettività. Un'idea dell'architettura non come verità rivelata che agisce sul mondo in termini di errori da correggere, ma come cultura comunicabile, tendenzialmente democratica, decisa a incidere direttamente sull'essere nel mondo dell'uomo, sul suo abitare il mondo. La critica di Tafuri, in sintonia con analoghe ricerche condotte all'interno di altri ambiti disciplinari, ammanta individuo e società in un sudario che impedisce la visione di una realtà non ideologizzata sulla quale l'architettura è chiamata a intervenire per modificarla dal di dentro, a volte per sovvertirla, mai per cancellarla o trascurarla intimorita da fantomatiche utopie regressive. Chi sceglie di sporcarsi le mani sul terreno dell'attività professionale non può farlo solo ripiegando in un'autoreferenziale nostalgia o abbracciando un altrettanto nostalgico realismo populista, né al critico è concessa la scusante di un'eccessiva miopia nell'individuare alcune posizioni e nel trascurarne altre, altrettanto significative. Paradossalmente, è proprio in questo che la critica di Manfredo Tafuri diviene operativa. Non tanto, cioè, nell'accezione, più volte da egli stesso contestata, di punto d'incontro tra storia e progettazione, di deformazione del passato proiettato forzatamente nel presente per orientarne le scelte [7] , quanto piuttosto nell'individuazione di alcuni percorsi progettuali e nell'esclusione di molti altri, soprattutto di una parte significativa di quelle ricerche, incentrate sulle qualità dello spazio abitato, sulle nuove tecniche di rappresentazione e sulle tecnologie più innovative per la sua concreta costruzione, che hanno saputo conquistare a fatica una propria centralità solo nell'odierno dibattito architettonico [8] .

A questo aspetto va poi aggiunto come, almeno sino alla "scoperta della filologia" [9] , la metodologia della ricerca tafuriana, pur proponendosi come "critica dell'ideologia architettonica",in realtàsi dimostri essa stessa ideologica. Spostando in modo estremamente colto l'ambito del discorso oltre la realtà fattuale, all'interno quindi di una dimensione speculativa teorica e astratta, a tratti dogmatica, la critica di Tafuri appare animata da una sorta di ragione cinica, da quella "falsa coscienza illuminata" teorizzata da Peter Sloterdijk [10] e acutamente interpretata da Hal Foster in un suo celebre saggio [11] . Chi si lascia guidare dalla ragione cinica "non rifiuta la realtà, piuttosto la ignora, e una simile struttura lo rende pressoché impermeabile all'ideologia critica, perché è già privo di dubbi, consapevole della sua relazione ideologica col mondo (…) Essendo ideologico e illuminato allo stesso tempo, il cinico si"auto protegge': le contraddizioni lo corazzano, la sua ambivalenza lo rende immune" [12] . A subire le conseguenze di questo atteggiamento non è il castello concettuale eretto con puntiglioso cinismo dal critico, quanto piuttosto la realtà, spaziale e sociale, rimasta inerme al di fuori di esso e il cui destino è raffigurato nell'acquerello rossiano descritto in apertura: un gioco tragico in cui "si vince perdendo" [13] .

Ecco, allora, che proprio la lucidità e la razionalità dell'intervento chirurgico tafuriano rappresentano alcuni tra i motivi di maggior problematicità di quel "progetto di crisi" nei confronti del quale appare evidente la necessità di un giusto distacco, di uno sguardo scevro di ogni intento agiografico e in grado, piuttosto, di demistificare e disinnescare le formule seducenti che sempre accompagnano ogni forma di ragionato cinismo. A dimostrazione che, in fondo, se il sonno della Ragione genera incubi anche l'insonnia in realtà può non giovarLe.

 

[1] Analoghe rappresentazioni compariranno successivamente in altre opere pittoriche quali: Ora questo è perduto (1975) e Cedimenti terrestri (1977).

[2] H. Van Dijk, Rem Koolhaas Interview , in "Wonen-TA/BK", n. 11, 1978, p. 18.

[3] «(…) Ho la netta impressione che Tafuri e i suoi amici abbiano in odio l'architettura. Costoro dichiarano morta l'architettura . Per lui l'architettura è una schiera di cadaveri all'obitorio. Ma una volta morti non lasciano i cadaveri in pace: sono così arroganti da pretendere di essere gli esperti dell'obitorio. Fanno gli intenditori nell'obitorio. Di quando in quando tirano fuori un cadavere, ne dicono qualcosa e lo rimettono via di nuovo, ma tutti assieme è impossibile. Eccezion fatta, per ragioni inspiegabili, per Aldo Rossi», in H. Van Dijk, Rem Koolhaas Interview , op. cit. (tr. it.: Marco Biraghi, Progetto di crisi. Manfredo Tafuri e l'architettura contemporanea, op. cit., p. 305).

[4] Al termine della Parte Prima: «L'antica disciplina chiamata "architettura" vede disporre i propri frantumi su un tavolo da gioco intorno al quale nuovi giocatori si accingono a dare concretezza, con quei lacerti disseminati, a "nuove tecniche"»; e in chiusura della Parte Seconda: «La sensazione che alcuni dei "nuovi giochi", intravisti chiudendo la prima parte di questo saggio, si stiano definendo, è frutto di un'ipotesi soggettiva». Manfredo Tafuri, Storia dell'architettura italiana 1944-1985, Giulio Einaudi Editore, Torino 1986.

[5] Si vedano, a titolo esemplificativo, i numeri monografici di Casabella (nn. 619-620, 1995) e di Any (nn. 25-26, 2000) dedicati interamente a Manfredo Tafuri. Più di recente: Orlando di Marino (a cura di), Manfredo Tafuri oltre la storia, CLEAN, Napoli 2009; Andrew Leach, Manfredo Tafuri. Choosing History, A&S/books, Ghent 2007; Marco Biraghi, Progetto di crisi. Manfredo Tafuri e l'architettura contemporanea, op. cit..

[6] Manfredo Tafuri, Les "muses inquiétantes" ou le destin d'une génération de "Maîtres", in "L'Architecture d'aujourd'hui", n. 181, 1975, pp. 14-33.

[7] «Ciò che comunemente si intende per critica operativa è un'analisi dell'architettura (o delle arti in genere), che abbia come suo obiettivo non un astratto rilevamento, bensì la "progettazione" di un preciso indirizzo poetico, anticipato nelle sue strutture, e fatto scaturire da analisi storiche programmaticamente finalizzate e deformate». Manfredo Tafuri, Teorie e storia dell'architettura, op. cit., p. 165.

[8] Su questi aspetti dell'opera tafuriana i due articoli brevi: Luigi Prestinenza Puglisi, I guai di Tafuri, http://www.prestinenza.it/articolo.aspx?id=296, 2007; Luigi Prestinenza Puglisi, Il doppio vincolo: Heidegger e Tafuri, http://www.prestinenza.it/articolo.aspx?id=297, 2007.

[9] Alberto Asor Rosa, Critica dell'ideologia ed esercizio storico, in "Casabella", op. cit.

[10] Peter Sloterdijk, Critique of Cynical Reason, University of Minnesota Press, Minneapolis 1987 (tr. it.: Critica della ragione cinica, Garzanti, Milano 1992).

[11] Hal Foster, L'arte della ragione cinica, in Idem, Il ritorno del reale. L'avanguardia alla fine del Novecento, Postmedia srl, Milano 2006, pp. 105-132 (originale: Hal Foster, The Return of the Real. The Avant-Garde at the End of the Century, Massachusetts Institute of Technology, Cambridge 1996.

[12] Hal Foster, L'arte della ragione cinica, op. cit., p. 122.

[13] Luigi Prestinenza Puglisi, Il doppio vincolo: Heidegger e Tafuri, op. cit.

 

Francesco Fusaro

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