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Grafica vernacolare e progetto ignorante

di Tiziano Manna

Finalista 2010

Nel 1993 il Senior Art Director del "New York Times" Steven Heller pubblica un articolo sulla rivista Eye nel quale invita a riflettere sulla produzione grafica legata allo stile vernacolare che sempre di più và identificandosi con un metodo, uno stile progettuale che delinea una cultura; che egli definisce appunto, del "brutto" (ugly) [1] . Il discorso di Heller non si presenta semplicemente come una critica nei confronti del manierismo stilistico postmoderno; egli sposta l'attenzione sulla problematica derivante dall'individuazione di ciò che può essere definito come "buon design" rispetto ad uno scenario complesso di produzioni sempre più confusionarie e disarmoniche. Produzioni che, come vedremo, riflettono un naturale decorso del processo evolutivo legato al progresso tecnologico.

Egli si sofferma sulla linea sottile che divide la sperimentazione dalla mera produzione nichilista (legata ad una concezione merceologica dell'artefatto comunicativo), evidenziando la sempre più frequente frammentazione della corretta lettura del linguaggio visivo (e della sua composizione), come conseguenza di un profondo problema sociale. Heller critica, oltre lo stile caotico di composizione prettamente casuale e intuitivo, anche la superficialità con la quale viene affrontato il progetto, che rende pessimo un progetto di comunicazione.

Per poter comprendere e delineare i contorni di una tematica estetica legata al "brutto" della grafica vernacolare o, se vogliamo, del progetto ignorante [2] , è necessario individuare il fenomeno e contestualizzarlo storicamente, analizzando quella sorta di ridondanza di eventi che a partire dalla metà degli anni sessanta si è evoluta in maniera esponenziale, coinvolgendo ed influenzando naturalmente (e radicalmente) anche il mondo della grafica. Intorno alla metà degli anni sessanta, infatti, ha inizio quello che potremmo definire come il decadimento del sistema moderno di produzione industriale.

L'america invade e stravolge ogni tentativo di continuare l'inserimento dell'arte e della cultura "alta" nel sistema produttivo-economico. Il consumismo pervade le strade, inonda le città ed entra in maniera sottile nelle case e nel modo di vivere dell'uomo. Il binomio funzione-economia padroneggia sui valori sociali sostituendo alla comunicazione il "bombardamento visivo". Come afferma Renzo Zorzi: «È così facile slittare dalla moralità alla moralizzazione, dalla forma al formalismo, dall'identità all'identificazione» [3] e la nascita del pop non fà altro che testimoniare un approccio alla produzione fondato sul consumo di massa.

Lo sviluppo di uno stile vernacolare, infatti, non è da considerarsi conseguenza di un singolo evento assestante, ma esso và analizzato come un processo ramificato che trova le sue radici nel rapporto tra l'evoluzione tecnologica e la vita dell'uomo e nell'intrecciarsi di eventi storici legati alla macchina. Il consumismo e la ridondante crescita della vita industriale sono tra le cause madri di quelle sub-culture, sviluppatesi nell'epoca moderna, che diventeranno protagoniste del nostro tempo frammentandosi nella contemporaneità attuale. Meyer [4] sottolinea già nel 1926 la veloce crescita tecnologica e fotografa il suo tempo testimoniandone l'accellerazione. Egli anticipa la visione consumistica di una produzione di massa continua, dove è importante produrre costantemente in minor tempo possibile, accrescendo così i guadagni ed i capitali, in una realtà dove "il tempo è denaro". La tecnologia quindi è considerabile fattore determinante (sia culturalmente che praticamente) nella produzione grafica.

Negli anni Ottanta, ad esempio, la fotocopiatrice assume le sembianze di una stamperia personale ed introduce quella possibilità di autoproduzione che caratterizzerà il XXI secolo e che sarà rampa di lancio per tutta quella grafica (vernacolare appunto) faidatè che porterà in poco tempo a far coincidere (nell'immaginario collettivo) la figura dello stampatore digitale con la figura del graphic designer.

E' opportuno chiedersi dove termini la sperimentazione e inizi lo stile vernacolare. Qual'è la linea di confine che permette di identificare e separare le due modalità progettuali? Il termine, secondo la definizione prevalente, indica i lessici dialettali; una multiforme compenetrazione e coesistenza di diversi linguaggi, diverse culture che si fondono in una cultura nuova, autoctona. Si pensi al fenomeno dell'immigrazione e alla convivenza di diversi popoli negli Stati Uniti, dove il fenomeno è particolarmente vistoso sin dai prodromi del Pop. Ed è appunto in America che questa forma di progettazione raggiunge i suoi picchi più evoluti e non a caso. L'americano infatti non ha tradizioni e radici che lo legano alla terra nella quale vive e per questo non ha avuto difficoltà a distaccarsi da un razionalismo che parallelamente è rimasto ben radicato in europa.

La meticcia popolazione statunitense dovrà quindi lavorare per costruire un passato che lo renda autoctono nel nuovo mondo, ed è per questo che esalterà qualsiasi forma di produzione vernacolare. C'è da dire che la crescita esponenziale della tecnologia contribuirà ad una crescita ed evoluzione altrettanto veloce del panorama grafico vernacolare. Motivo per cui il vernacolare del XX secolo sarà ben diverso da quello del XXI secolo, pur conservando le caratteristiche peculiari. Importante è quindi definirne le linee di confine, con particolare attenzione alla progettazione intesa come risultato di un processo.

Il vernacolare abbraccia una produzione visiva legata principalmente ad un'ottica consumistica del mercato, ad una cultura pop dell'artefatto comunicativo. È da sottolineare il fatto che l'imporsi di questa forma autoctona di grafica rese difficile la possibilità di perpetuare una politica della qualità nella comunicazione. Difronte ad uno scenario di molteplici produzioni caratterizzate da una aprogettualità, basate su configurazioni istintive e disarmoniche (ma non per questo meno competitive), si è costretti a mediare con un cliente sempre meno raffinato, educato da un contesto visivo conseguenza di un mercato che guarda alla quantità, dove le leggi sono dettate dal marketing. Dove «quasi più nessuno ti chiede di fare il meglio ma il meno-peggio» [5] , dove tutti sono coinvolti e nessuno è escluso.

Questo scenario diventa fonte d'ispirazione per progettisti come Ed Fella, autore di una produzione raffinata nella quale la vena vernacolare si fonde con quella scientificità che rende possibile una casualità progettata, una strutturazione visiva nella quale traspare un apparente ordine caotico, con forte citazione "futuristico-dadaista". Fella veste i panni del postmodernismo ma non ne diviene schiavo. Egli mira a disimparare e ricerca quella ingenuità genuina che porta alla decostruzione casuale del messaggio fino ai limiti estremi, raggiungendo un'apparente mancanza di tecnica, in un continuo ricercato privitivismo. A questo punto è fondamentale scindere il vernacolare puro dal vernacolare progettato. Evidente è il controsenso nel secondo concetto: lo stile vernacolare implica un'aprogettualità, quindi se vi è un progetto [6] alla base, il risultato non può essere definito "vernacolare". Fella trae ispirazione dal vernacolare ma non produce grafica vernacolare.

Il postmodernismo che si fa strada negli anni Ottanta del XX secolo è caratterizzato dalla rivoluzione digitale. Intorno al 1984 infatti il computer diventa ufficialmente il nuovo strumento di progettazione per quanto concerne il graphic design. Interfacce di facile utilizzo e software in grado di simulare l'intero ambiendte di lavoro del grafico, aprono le porte ad una nuova work station, mettendo il designer in condizioni di poter gestire autonomamente tutte le fasi del progetto, fino alle soglie del processo di stampa. Vengono convertiti in digitale intere famiglie di caratteri in modo da poter utilizzare pienamente il computer come strumento di progettazione. Il supporto digitale diventa il centro di produzione e progettazione degli artefatti comunicativi e questo fa sì che la figura del progettista designer si distacchi da quella del tecnico stampatore.

In realtà la diffusione del personal computer combinata alla specializzazione del lavoro, diviene ben presto causa di un fenomeno che si delinea completamente intorno alla metà del XXI secolo: il service (o centro stampa). Nascono laboratori nei quali il professionista, affiancato dal tecnico specializzato, usufruisce dei macchinari di stampa, realizzando il proprio progetto digitale, sviluppando una forma autoctona di vernacolare costituita principalmente dalla produzione grafica dei tecnici da services, ai quali inconscentemente, vengono commissionati lavori da progettista.

Inutile fare appello alla correttezza intellettuale, il Duemila si presenta come una barbara inondazione mediatica. Si ritorna al Seicento, quando la figura del tipografo coincideva con quella dello stampatore [7] . Ancora una volta è la tecnologia ad alterare il panorama visivo e questa volta in maniera irreversibile. Prodotti di scarsa qualità visiva si susseguono freneticamente, in una cultura ormai segnata dal consumismo, nulla è fatto per durare nel tempo, neanche l'immagine. Grafiche scadenti entrano nell'immaginario collettivo creando un'estetica del brutto accettata e condivisa. Si ritorna al "mestiere", il web confonde ed intacca le menti con scenari visivi orrendi, creando confusione nelle idee dei clienti sempre meno educati ad una grafica progettata. In una concezione dove la grafica viene venduta a peso, inutile sperare e pensare in una evoluzione culturale dello stampatore: bisogna rieducare l'immaginario collettivo evitando una imminente involuzione culturale.

È indispensabile tornare alla specializzazione del lavoro e ripristinare un contesto dove «la differenza è tra la pratica non elaborata criticamente con i materiali di produzione ("stampa") e la configurazione consapevole del prodotto, secondo istruzioni date ("tipografia")» [8]

[1] Steven Heller, Cult of Ugly, rivista Eye n. 9, vol. 3, 1993

[2] Con il termine progetto ignorante si vuole intendere il risultato di un processo pratico effettuato senza seguire alcun tipo di metodo se non quello della propria intuizione. Quei progetti, quindi, privi di elementi che possano rimandare ad una riflessione prioristica basata su regole di conformazione e strutturazione del risultato finale; regole caratterizzate da un rigore scientifico ed una conoscenza teorica.

[3] R. Zorzi, Design Process, in Design Process Olivetti, 1908-1978, catalogo della mostra, Ivrea 1979, p.28

[4] Hannes Meyer, Il nuovo mondo, 1926, p. 274, in Claude Schnaidt, Hannes Meyer, Nigli, Teufen 1965, pp.92-94.

[5] Lettera del 30 marzo 1965, pubblicata in appendice a Sinisgalli a Milano. Poesia, pittura, architettura e industria neglianni Sessanta, a cura di G. Lupo, Novara, p. 250.

[6] In questo caso il termine progetto vuole identificare quell'insieme di operazioni e scelte prioristiche che delineano un prodotto secondo un determinato processo (sia pratico che intellettuale) e che, andando ben oltre la mera intuizione, sono il risultato di uno studio.

[7] Robin Kinross, Tipografia moderna, Nuovi Equilibri, Viterbo 2005, p.25.

[8] Ibidem, p.17

Tiziano Manna

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