Con Vittorio Gregotti, scomparso la scorsa settimana all'età di 92 anni, se ne va una parte di storia dell'architettura del nostro Paese.
Pubblichiamo - in esclusiva italiana - una delle sue ultime interviste, curata da Nuno Grande e Roberto Cremascoli, per i 25 Anni dall'inaugurazione del Centro Cultural de Belém (CCB) a Lisbona.
Partendo proprio dal progetto, si parla di cultura portoghese e italiana, della sua amicizia con Álvaro Siza, della decadenza dell'architettura e, soprattutto, del come costruire pezzi di città.
Intervista rilasciata il 22 novembre 2017. Versione originale pubblicata in portoghese nel volume [Grande, Nuno, (ed.) CCB, Vinte e Cinco Anos/Twenty Five Years. Lisboa: Centro Cultural de Belém, 2018]
in copertina: Vittorio Gregotti e Álvaro Siza | "Porto Poetic", esposizione curata da Roberto Cremascoli - OASRN Ordine degli Architetti di Porto | Triennale di Milano 2013 | foto di La Triennale di Milano © Fabrizio Marchesi.
Roberto Cremascoli, Vittorio Gregotti, Nuno Grande | Foto: © Marco Cremascoli
Come nasce l'idea di unirsi in squadra per iniziare a intraprendere il concorso del Centro Culturale di Belém? Com'è nata la relazione tra lei e Manuel Salgado, co-autore del progetto?
Ho incontrato per la prima volta Manuel Salgado durante un convegno al Ministero dell'Urbanistica di Lisbona. In quel periodo il Segretario di Stato dell'Urbanistica era Nuno Portas, un mio caro amico che conoscevo già da anni poiché venne a trovarmi nel ‘66 dopo avere letto il mio libro Il territorio dell'architettura.
A quel convegno era presente anche Manuel Salgado ed è lì che ci incontrammo, per poi conoscere la sua famiglia, la sua casa e primi lavori che aveva realizzato.
L'anno del concorso è stato l'88, l'unica persona presente che conoscevo era un architetto inglese, Sir Leslie Martin, abbastanza importante e famoso tanto da diventare il perno di questa cosa.
Abbiamo affrontato il concorso con grande entusiasmo anche se, devo ammettere, ero l'unico a conoscere un po' il Portogallo.
Come rientra la cultura urbana di Lisbona nel progetto?
È importante Lisbona, ma era importante anche Porto, dove abitava Álvaro Siza.
Qui, infatti, si era concentrato il rapporto tra l'Europa e la cultura portoghese e gli inglesi avevano realizzato molti interventi dando origine a commistioni, legate alla produzione del Porto (Porto Wine).
Era quindi una città più internazionale in quegli anni di quanto lo fosse Lisbona. Teneva, naturalmente, alla rivolta radicale che aveva avuto, e possedeva una cultura legata agli aspetti più connessi alla crescita della città di Lisbona, al suo modo di svilupparsi e ai rapporti che naturalmente aveva avuto con il sud America, che per fortuna io conoscevo un po' perché vi avevo insegnato.
Questo creava dei problemi interessanti tra cui i rapporti con la storia, oltre che le diversità tra le due città, poiché una era più legata all'idea di impero, l'altra all' idea di Europa, di commercio europeo e di rapporti europei anche culturali.
Foto © Elisa Scapicchio
Come si riflette questo nel progetto che ha fatto?
In maniera molto schematica, esattamente come ve lo sto raccontando. E con molto merito dei discorsi fatti con Álvaro Siza, il quale non era così noto in Europa in quel momento.
E poi c'erano tutti i problemi connessi con la rivoluzione che mettevano in discussione qualsiasi personalità.
La sua, in particolare, era molto legata ai problemi delle case popolari e al modo di pensare cosa significasse una casa popolare in quel momento.
Secondo me, questi pensieri sulla casa popolare, nel caso del Portogallo, erano particolarmente fortunati perché si tratta di un paese che ha una tradizione molto solida, stabile e articolata tra nord e sud in questo campo. Molto più solida della casa popolare europea che spesso era provvisoria e poteva cambiare nel tempo, mentre quella portoghese mi dava idea di stabilità, anche culturale.
Questo Centro Culturale aveva un programma differente. Si trattava di fare quasi un monumento per la democrazia portoghese?
Questo era molto diverso, certo.
Il problema era quello di affrontare la questione della monumentalità di fronte a una città che aveva una solidità storica molto forte, e di pensare, allo stesso tempo, a come occuparsi di quella parte di città.
Per noi il grande problema è sempre stato non tanto quello di un monumento singolo, quanto di un nuovo insieme di città possibile, che doveva utilizzare proprio quella posizione e quell'articolarità per avere e ricevere cambiamenti e fasi diverse tra di loro al proprio interno.
Abbiamo avuto molti approcci, anche diversi, perché esiste un rapporto con la piazza monumentale e con la chiesa, e un rapporto, invece, con la parte in salita, diciamo quella verso il mare ad esempio, che aveva un carattere molto diverso. Erano tutti elementi che permettevano un'articolazione, la difficoltà è stata quella di dare unità a questa articolazione.
Foto © Elisa Scapicchio
Si ricorda altre proposte a concorso che sono passate alla seconda fase? Ad esempio del suo ex studente Renzo Piano o di Gonçalo Byrne?
Quella di Byrne sì, ed era abbastanza interessante; quella di Piano, devo dire che si trattava di una proposta che autonomamente aveva degli elementi intelligenti, ma mancava di riferimenti alla cultura portoghese e come atteggiamento può anche essere un punto di vista.
Per me invece era un elemento molto importante perché era una delle risorse. Io ho cominciato ad avere un atteggiamento un po' più preciso dopo il convegno di Hoddesdon, nel 1951 [CIAM VIII].
Da lì sono emerse 2 posizioni completamente diverse. Una che voleva tenere conto della storia, dei contesti ed era soprattutto riferita alla ricostruzione europea (anche se di questa posizione alcuni elementi sono poi degenerati stilisticamente e altri no, ma questo non importa); e l'altra invece era l'idea che la tecnologia fosse il contenuto del nostro futuro.
Questo passaggio della tecnologia da mezzo a contenuto ha suscitato, nell'altro schieramento a cui appartenevo, una reazione molto forte e contraria perché pensavamo che la tecnologia fosse uno strumento straordinario, ma fosse, appunto, uno strumento, non un fine o un contenuto.
Come si colloca in relazione al grande dibattito di fine anni 80 rispetto al post moderno?
Il post moderno è stato uno dei drammi, una deformazione ingiustificata e senza fondamento dell'idea e del rapporto che l'architettura deve avere con un contesto, il quale non ha un età, ma uno svolgimento e una trasformazione. E con questa trasformazione noi dovevamo fare i conti, secondo me.
Secondo il postmoderno, invece, c'era l'idea di tornare agli stili passati perché questi erano più consolanti, come dire, più positivi e sicuri. Più legati alla storia.
Il legame con la storia, per noi che appartenevamo invece all'altra categoria, era di altra natura. È come essere di fronte ad un materiale e fare i conti con quel materiale. Dobbiamo costruire con dei mattoni? Benissimo, allora vediamo che rapporti ha il mattone nella storia dell'Italia o del Portogallo, ad esempio, e così via.
I materiali storici devono essere presi in considerazione in maniera dialettica con differenze per le condizioni attuali in cui ci troviamo.
Sente che il progetto suo e di Manuel è più vicino ad un pratica che vuole fare un pezzo di città o un monumento?
Assolutamente, fin dall'inizio, l'idea è stata quella di volere fare un pezzo di città.
A dire la verità, un campione di una possibile trasformazione e proseguimento coerente - rispetto alla propria storia - di una città come Lisbona, che era stata già sconvolta da un terremoto e largamente ricostruita.
La ricostruzione non aveva demolito tutto il resto della città, ma aveva tenuto conto di quelle che potevano essere le ragionevoli razionalizzazioni o modernizzazioni.
Anche noi abbiamo pensato ad una parte della città moderna che aveva il vantaggio di avere un confronto con una parte storica antica, e un confronto geografico molto delicato poiché era un punto in cui il rapporto con l'acqua e l'ingresso del fiume rappresentavano elementi che bisognava prendere in considerazione.
La parte antropogeografica per noi era la cosa importante, ecco.
Foto © Elisa Scapicchio
Nasce riferendosi alla Baixa Pombalina e al Marchese di Pombal l'idea di utilizzare la maglia sette e mezzo?
Anche, e ne abbiamo discusso molto pure con Álvaro.
Aveva già utilizzato in altri progetti questa idea di maglia?
No, mai.
Molto romana...
Si, non solo romana, credo.
L'idea della maglia era quella di farle rappresentare un elemento attraverso il quale confrontarsi con le proprie eccezioni. La maglia è un'ipotesi con cui bisogna scontrarsi e renderla razionale nelle diversità tra le parti. Non è un sistema di unificazione complessiva, ma una radice sulla quale si possono impostare le differenze.
E' vero che quando sorgeva qualche dubbio in fase di cantiere lei indicava sempre di riferirsi a sottomultipli della maglia di sette e mezzo?
Beh, non così radicalmente come lo raccontate.
Questa quindi è una leggenda metropolitana...
Il discorso è che, questo sette e mezzo, è una maglia che non imprigiona, ma che rappresenta un fondamento razionale alle eccezioni, e quindi dà ragione alla maglia stessa.
L'edificio è stato realizzato in poco meno di 4 anni perché c'era una scadenza rapida del Consiglio di Presidenza dell'Unione Europea. Come ha gestito questo?
Il grande merito è stato anche di Manuel Salgado, sicuramente.
Noi abbiamo mandato persone fisse, però Manuel, in Portogallo, è una figura rilevante e, soprattutto, una persona molto capace in ambito gestionale.
Gestire una struttura così significava restare in contatto con noi e contemporaneamente tenere conto dell'intenzionalità comune relativa allo stato di avanzamento del progetto, rispettando le modifiche che venivano fatte per rispondere al cambio di esigenze, precisate in fase di cantiere e non al momento del concorso.
Credo sia stato questo il grande merito di Manuel. Non è così facile interpretare un altro architetto, essere d'accordo con lui e cercare di essere coerente nel modo di realizzare le cose.
Foto © Elisa Scapicchio
Qual è l'importanza del Centro Culturale di Belém nel suo percorso e nella sua carriera? Consideranto che il Centro Culturale di Belém è ormai un luogo in cui si svolge gran parte della cultura portoghese.
Io credo che sia il concorso, come vedremo nella mostra al PAC che stiamo organizzando e nella quale esporremo 500 dei 1200 progetti realizzati (Il Territorio dell'architettura. Gregotti e Associati 1953_2017, PAC Milano 20.12 - 11.02.2018, mostra realizzata in occasione dei 90 anni dell'architetto, ndr), sia le discussioni che sono poi sopravvenute in tutta Europa sono molto importanti.
Mentre realizzavamo il progetto lo raccontavamo in Francia, in Inghilterra in Germania, in Spagna e anche in Italia. In tutta l'Europa abbiamo avuto l'occasione di fare conferenze, in cui, al centro del dibattito vi era il "come fosse fatto" questo progetto.
Ha, quindi, un valore importante e incancellabile nella nostra storia personale di architetti, un elemento che comprova la possibilità dei tanti discorsi teorici e scritti che abbiamo fatto negli anni precedenti a partire dagli anni '50 su questo argomento.
È la prima volta che lo si riesce a realizzare concretamente, anche perché questa realizzazione aveva il grande vantaggio di fare parte di una cultura molto diversa dalla nostra europea, non tanto diversa da non capirla, ma abbastanza diversa da non essere la cultura della nostra regione o della nostra città. Nelle nostre si presentano tutti i pericoli dell'addormentarcisi sopra, qui invece tutte le volte bisognava confrontarsi e prendere una decisione. E questo per noi è stato molto importante.
Foto © Elisa Scapicchio
È stato un progetto dove si sono incrociate anche delle relazioni intime e personali...
Assolutamente sì.
Credo che questo sia stato uno degli elementi che ha rafforzato l'amicizia e l'ammirazione che io ho sempre avuto per Álvaro Siza. Era una persona ancora un po' nascosta quando l'ho conosciuta io.
Nello stesso periodo in cui lei stava costruendo il Centro Culturale di Belém, Álvaro Siza stava facendo il progetto di recupero del Chiado a Lisbona confrontandosi con la storia della città di Pombal.
Questa coincidenza è interessante.
Interessante perché è una prova del fatto che questo principio poteva essere applicato anche in altri punti, ottenendo risultati completamente differenti perché le condizioni con cui ci si confrontava erano molto diverse, ma per noi importanti. Credo che questa sia una delle ragioni.
Si può dire che voi due abbiate lo stesso rapporto con la storia come strumento operativo?
Sì, una storia geograficamente realizzata, in modo differente rispetto a quelli che hanno considerato la natura come elemento alternativo a tutta la tradizione del movimento moderno.
Per noi non c'è la natura, c'è l'antropogeografia, c'è la natura realizzata con tutte le sue deformazioni con la sua storia e con la sua relativa provvisorietà.
Dobbiamo sapere che il mondo cambia, si trasforma, si modifica e, quindi, cogliere intensamente la radicalità di questo punto, e anche il tipo di trasformazione è per noi un elemento molto importante. Quindi, quello che sta intorno, che io chiamo contesto, comprende non solo il rigagnolo che c'era, ma anche il modo con cui è stato modificato per diventare un elemento idraulico per una parte del terreno.
Foto © Elisa Scapicchio
La natura modificata dall'uomo. E' come se l'architettura fosse una seconda natura...
In realtà l'abbiamo considerata così, chiamandola "antropogeografia", per dire che, in questo momento, le condizioni che ci circondano e che si esprimono in un aspetto fisico non dobbiamo imitarle, ma tenerne conto.
Non dobbiamo avere l'assoluta imperiosità di trasformarle radicalmente. Deve essere uno degli elementi con cui noi dobbiamo parlare quando costruiamo un posto, anche se è piccolo.
In questo progetto lo spazio pubblico ha la stessa importanza dello spazio edificato. Lo spazio interno ha un grande rapporto in altezza e proporzioni con lo spazio pubblico. Come vede questo rapporto tra lo spazio pubblico esterno e lo spazio interno?
Era un po' un modo di pensare a quel pezzo come un pezzo di città. Perché il pezzo di città ha tutto questa doppia relazione. Se lei si trova di fronte dei grandi muri è un altro problema.
Noi abbiamo pensato alla città come quella di Lisbona, cercando di rompere il rapporto tra gli spazi di percorso e la relazione con i muri che ci stanno di fianco. Avere sempre qualche cosa, anche se non avevamo a disposizione un elemento fondamentale che era il commercio. Anche se aveva queste funzioni fin troppo nobili.
Quello che a noi dispiace, e lo sapete molto bene, è che quel progetto non è finito e manca una parte rilevante.
Foto © Elisa Scapicchio
Ci sono altri edifici importanti di Lisbona che hanno una relazione importante con il fiume come i palazzi antichi e la fortezza. C'è qualcosa di questo nel progetto?
Sì, e abbiamo citato molte volte, anche in progetti successivi, il caso di Lisbona proprio parlando del tema delle fortezze e dei muri.
Lisbona ha il vantaggio di avere un mare in basso ma anche una differenza di quota molto articolata. È un paesaggio molto completo in tutti i suoi elementi. Qualche volta questi elementi sono regolati proprio dal sistema dei grandi muri, a volte definizioni di proprietà, a volte militari o fondamenti di grandi edifici.
È un sistema che in Italia quasi non esiste.
La cultura italiana è una cultura molto diversa dove il monumento ha sempre avuto un ruolo autonomo pretendendo di essere isolato dal resto dell'edificato, tranne quelli che sono divenuti monumenti nel corso del tempo come, ad esempio, le mura antiche di una città che in origine aveva un carattere bellico.
Cosa pensa del fatto che il Centro Culturale di Belém sia diventato anche un luogo in cui si celebra l'architettura? Il Garagem Sul è stato adibito a galleria dell'architettura. C'è stata l'esposizione di Álvaro, di Eduardo Souto de Moura, di Nuno Portas, ora c'è l'esposizione "Neighbourhood, Where Alvaro meets Aldo", curata da noi due [Nuno Grande e Roberto Cremascoli] per la Biennale di Architettura di Venezia 2016.
Ci sarà anche la sua, cosa pensa di questo fatto che il centro culturale di Belem diventa una fortezza da cui si celebra anche l'architettura?
Non posso che darmi delle arie da questo punto di vista, anche perché questa fortezza compare in un momento in cui nessuno parla più dell'architettura in maniera possibile.
Nell'architettura di oggi c'è una decadenza tutta legata, da un lato, alla provvisorietà e, dall'altro, all'idea che bisogna fare qualcosa di nuovo per delle ragioni che sono sempre di carattere mercantile e che, sostanzialmente, perde la propria proprietà . La conseguenza è che non si discute più di architettura.
Il modo con cui si discute dell'architettura, rilevando la sua inesistenza in questo momento e la sua grandezza fisica e l'idea che è destinata ad una provvisorietà.
Neighbourhood, Where Alvaro meets Aldo Padiglione del Portogallo alla XV Biennale di Venezia 2016 a cura di Nuno Grande e Roberto Cremascoli ITINERANZA: Garagem Sul - Centro Culturale di Belém, Lisbona, Portogallo 14.11.2017 - 11.02.2018 | Foto: © Atelier XYZ
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