Lo si intravede all'ultimo momento, tra gli alberi: una linea orizzontale che non si impone, ma si lascia scoprire. Il Padiglione Tedesco, progettato da Ludwig Mies van der Rohe e Lilly Reich per l'Esposizione Internazionale del 1929, si solleva leggermente dal suolo: quanto basta a segnare una soglia.
Nessuna porta, nessun percorso obbligato. Le pareti orientano senza chiudere; i materiali lavorano per riflessione e assorbimento: il vetro riflette, il marmo trattiene la luce, l'onice aggiunge profondità.
È facile dimenticare che si tratta di una ricostruzione del 1986: il progetto vive nella sua coerenza concettuale, non nel culto dell'originale. Continua a produrre pensiero, non per ciò che mostra, ma per come insegna a guardare.
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Foto di © Maria Rosaria Dandolo
Il Padiglione come manifesto del vuoto
Cosa accade quando l'architettura rinuncia alla funzione, al contenimento e alla rappresentazione? Il Padiglione di Barcellona non è un edificio nel senso consueto: è un frammento, un dispositivo progettuale.
Pur nato per accogliere la delegazione tedesca, non espone nulla se non sé stesso. Nessun ornamento, nessun simbolo: Mies van der Rohe e Lilly Reich scelgono la sottrazione come metodo.
Lo spazio è definito da ciò che rende possibile: attraversamenti, affacci, soste. Non è un volume da chiudere, ma un'esperienza da percorrere. L'equilibrio si gioca tra presenza e assenza: superfici, pieni e vuoti, trasparenze e opacità.
In questo senso, il Padiglione resta un manifesto: progettare significa suggerire, non imporre.

Foto di © Maria Rosaria Dandolo
Lo spazio costruito: materiali, luci, superfici
Ogni elemento concorre a una composizione essenziale. I materiali — onice dorato, marmo verde di Tinian, travertino romano, vetro smerigliato — non sono finitura: regolano luce, profondità e continuità visive.
Mies parlava di "chiarezza costruttiva portata alla sua espressione esatta". Il progetto è una trama calibrata di superfici e giunti: pannelli che orientano senza chiudere; la vasca che amplia il campo visivo; pilastri cruciformi in acciaio nichelato impostati su un basamento in travertino alto 1,30 m.
La sedia Barcelona, disegnata per l'occasione, non è un complemento d'arredo: entra nella sintassi spaziale. Anche il dettaglio più discreto — spessori, bordi, fughe — partecipa alla definizione dell'insieme.

La lezione di Mies sullo spazio
Mies van der Rohe e Lilly Reich non progettano ambienti chiusi, ma sequenze aperte. L'orientamento nasce dall'allineamento dei piani, dal posizionamento delle masse e dal lavoro sui bordi.
L'esperienza è costruita dal rapporto tra pareti, piani riflettenti e campi di opacità: ciò che si vede e ciò che si intuisce si alternano. La lezione non è solo formale ma metodologica: ridurre senza impoverire; costruire con misura; usare il vuoto come dispositivo operativo.
Le lastre d'onice, con venature quasi paesaggistiche, svolgono più ruoli: membrana, fondale, riferimento visivo. Ne deriva un'architettura che prima di definire un uso produce una condizione: un luogo che attiva attenzione e ascolto.

Foto di © Maria Rosaria Dandolo
Un vuoto che resiste al tempo
A quasi un secolo dalla costruzione, il Padiglione è ancora attuale. Non perché anticipi uno stile, ma per una logica che resiste alle mode.
Nel 1929, mentre le esposizioni internazionali celebravano monumentalità e retorica, Mies van der Rohe e Lilly Reich proposero un edificio essenziale e silenzioso, privo di narrazione. Oggi, nell'epoca del sovraccarico visivo e delle funzioni moltiplicate, quel gesto è persino più utile: progettare pause, rallentare lo sguardo, definire soglie significative..
L'attualità del Padiglione non dipende dalla forma, ma dal pensiero che la sostiene: vuoto come risorsa progettuale, materia come strumento di misura, orientamento senza costrizione.
In un tempo che teme il silenzio, questo edificio lo tratta come materiale di progetto.

Foto di © Maria Rosaria Dandolo

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