Architetti nella complessità: partecipare per affrontare una crescita metodologica

intervista a Massimo Bastiani, architetto

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Massimo Bastiani Massimo Bastiani architetto, svolge attività professionale maturando la propria esperienza nei settori dell’urbanistica ambientale ed architettura ecologica.

Docente presso l’Università degli Studi di Roma la Sapienza Facoltà di Architettura LUDI, Corso di Progettazione Ambientale dal 2003. Esperto valutatore della Commissione Europea per il V° e VI° Programma Quadro per la DG TREN (Transport and Energy).

Esperto di progettazione partecipata e National Monitor dell’Unione Europea, D.G. XIII della metodologia European Awareness Scenario Workshop (EASW). Componente del Consiglio Direttivo di Eurosolar Italia dall’agosto1994. Componente della EU Photovoltaic Technology Platform – Working Group2. Amministratore e ricercatore senior, della società Ecoazioni operante nella realizzazione di progetti integrati per la promozione dello sviluppo locale sostenibile. Coordinatore e consulente in progetti pilota Nazionali e programmi Europei di ricerca. Responsabile scientifico e metodologico in numerosi processi di Agenda 21 Locale.

 

La dimensione europea della partecipazione ha determinato un forte impatto sul rapporto tra progettisti ed enti locali: è cambiata la terminologia, si sono create figure nuove e inediti contesti operativi. Incontriamo l’architetto Massimo Bastiani, amministratore della società Ecoazioni, per cercare di capire come tutto questo possa offrire prospettive di lavoro ai laureati in architettura. Se è vero che “sono ormai quasi quindici anni che le leggi prevedono forme di decisione inclusiva, come le conferenze di servizi, gli accordi di programma…”, allora forse è arrivato il momento di scoprire come ci si prepara al lavoro di squadra e al confronto “con un’utenza allargata”.

 

Intervista

di Francesca Bizzarro

1. Può mettere in relazione architettura e progettazione partecipata?

La progettazione partecipata sta cambiando il modo di lavorare di architetti ed urbanisti in tutta Europa. Seguendo un percorso che va dall’ascolto, alla comunicazione fino alla definizione delle idee progettuali si possono condividere esperienze sui luoghi e sulle persone che li abitano, che altrimenti sarebbe difficilissimo raccogliere. E’ chiaro che un percorso del genere non è semplice né scontato. I fattori da considerare sono molti: affinché una simile impresa possa funzionare sono necessarie specifiche competenze e approcci metodologici che difficilmente si improvvisano. Fondamentale poi la scelta degli interlocutori, che è una questione complessa e delicata.

2. Che cosa l’ha spinta a occuparsi di progettazione partecipata?

Mi sono accostato molti anni fa a questa tematica, convinto della necessità di ribaltare il punto di vista, la prospettiva con la quale svolgevo la mia professione. Lavorando nel settore della ricerca progettuale, sviluppando progetti pilota e sperimentali, ho verificato in prima persona una certa distanza tra le innovazioni che tentavamo d’introdurre e le comunità a cui erano destinate. Condividere il metodo è stata una sorta di “scelta obbligata”. I miei studi universitari non contemplavano la progettazione partecipata. Ricordo che mi colpì molto il Villaggio Mateotti realizzato a Terni da Giancarlo De Carlo…e anche il fatto che il processo partecipativo alla base del progetto fosse poco considerato dai miei docenti.

3. Come si collocano gli architetti nella progettazione partecipata?

L’architetto diventa parte di un team che raccoglie al suo interno competenze diverse e deve essere in grado di confrontarsi con un’utenza allargata, acquisendo strumenti e competenze per trasformare in progetto gli stimoli che riceve. Si tratta di accettare la sfida della complessità e non tentare di semplificare i processi che si hanno di fronte. L’attenzione ad ambiente e partecipazione sta ampliando la “cassetta degli attrezzi” in dotazione agli architetti.

4. Può citare una o più esperienze in cui l’apporto degli architetti è stato determinante?

Innanzitutto, i tanti contratti di quartiere portati avanti in tutta Italia, laddove del resto sperimentazione e coinvolgimento delle comunità erano esplicitamente richiesti nei Bandi.

5. Progetti didattici come la Scuola Superiore di Facilitazione possono integrare la formazione universitaria?

Gli architetti, come altri professionisti, devono considerare la necessità di una formazione e di un aggiornamento continuativo nel tempo. Corsi come quelli della Scuola Superiore di Facilitazione servono per ampliare le conoscenze metodologiche sulla gestione di gruppi o sulle diverse tecniche a disposizione. Anche perchè, per quanto riguarda la partecipazione, improvvisare può essere “pericoloso”. Un processo partecipativo può attenuare i conflitti, ma può anche esasperarli: può moltiplicare i veti o dare adito a ricatti. Può produrre decisioni sagge che riescono a comporre i diversi punti di vista dei partecipanti in una visione condivisa dell’interesse generale, ma può anche generare pessimi compromessi che reggono pochissimo.

6. Rispetto ai processi di partecipazione, come si colloca il nostro Paese nel panorama europeo e internazionale?

Essenzialmente, in Italia la partecipazione è stata una “riscoperta”, mentre in altri contesti – come quelli anglosassoni – è stata acquista come “corredo genetico”. Mi è capitato di lavorare con grandi professionisti inglesi come John Thompson & Partners e constatare di persona quanto risultassero semplici e naturali community planning complessi che impiegavano decine di persone ed erano studiati fino nei minimi dettagli.

7. Quanto contano la politica e i referenti istituzionali nell’attuazione di progetti finalizzati a valorizzare le specificità di comunità e quartieri, e orientati a proporre un uso più responsabile delle risorse?

La politica conta molto, ma è necessario non farsi condizionare. Capita spesso che un Sindaco o un Assessore, trovandosi di fronte a una questione complessa, decida di convocare i soggetti interessati, riunire i diversi partner, coinvolgere le associazioni che operano in un quartiere o anche i singoli cittadini che vi risiedono. La scelta di aprire un processo partecipativo è talvolta compiuta volontariamente (e informalmente) da un amministratore pubblico che ritiene utile allargare la platea dei decisori e responsabilizzarli. In alcuni casi è incoraggiata (o addirittura prescritta) dalla legge. Sono ormai quasi quindici anni che le leggi prevedono forme di decisione inclusiva, come le conferenze di servizi, gli accordi di programma o i diversi istituti che passano sotto il nome di programmazione negoziata. Il coinvolgimento delle associazioni e dei cittadini è esplicitamente previsto in programmi di riqualificazione urbana come i già citati contratti di quartiere. L’Unione Europea ha dato un fortissimo impulso in questa direzione: è quasi impossibile trovare un programma comunitario in cui non compaiano, con grande rilievo, espressioni come partenariato, coinvolgimento dei cittadini, partecipazione.

8. Ritiene che la progettazione partecipata possa rappresentare una reale opportunità lavorativa – autonoma o dipendente – per i laureati in architettura?

Ritengo che certamente sia un modo per ampliare la capacità degli architetti di orientarsi all’interno di un mercato che ci presenta sempre nuove sfide, di stare dentro a una società che cambia di continuo e che richiede sempre nuovi profili professionali.

9. Come si avvia un progetto di Ecoazioni? Quali sono i passaggi fondamentali per un libero professionista che voglia seguire il vostro esempio?

Oltre ad una formazione di base nel settore delle metodologie e tecniche di partecipazione consiglierei, in particolare ai giovani, di farsi un’idea diretta attraverso stage formativi. Noi in questi anni abbiamo avuto decine di stagisti che hanno principalmente avuto l’occasione di constatare “dall’interno” come nasce e si conduce un processo partecipativo.

10. Ci sono competenze o ruoli per i quali Ecoazioni ricorre a collaboratori esterni? Se sì, attraverso quali canali avviene la ricerca e il successivo contatto con i potenziali candidati?

A chi, come noi, opera a livello nazionale, un processo partecipativo richiede in primo luogo di confrontarsi con contesti sempre diversi. La scelta è quella di integrare il nostro team con risorse locali che facilitano le relazioni in situ e fanno avviare la nostra fase di ascolto ancora prima di iniziare il progetto. Le modalità di reperimento di tali risorse sono varie e dipendono dai contesti territoriali. Selezioniamo candidati anche attraverso una “banca dati”, basata sui curriculum che ci vengono inviati spontaneamente da coloro che vogliono collaborare o fare stage con noi.

11. Può segnalarci le prossime iniziative di Ecoazioni?

Attualmente le attività su cui ci stiamo impegnando e che prevedono la partecipazione, sono: la VAS del Piano Strutturale dei comuni del consorzio faentino; il progetto strariflu, strategia di riqualificazione fluviale partecipata del Parco Oglio: l’introduzione della VAS nella pianificazione comunale con la Provincia di Ascoli; le Linee Guida per redazione del Piano Urbano della Mobilità (PUM) del Comune di Pesaro e due progetti INTERREG IIIB uno sulla rivitalizzazione dei centri storici ed uno sui nuovi quartieri ecologici. E’ comunque possibile essere aggiornati sulla nostra attività e consultare materiali relativi ai nostri progetti consultando il nostro sito www.ecoazioni.it

 

Per saperne di più: ECOAZIONI per uno sviluppo locale sostenibile www.ecoazioni.it
via B. Ubaldi, Centro Direzionale “Prato” – 06024 Gubbio (PG)
Tel. 075-9222693 Fax 075 – 9272282
E-mail: m.bastiani@ecoazioni.itmassimo.bastiani@uniroma1.it

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