Cominciamo dalla fine. Le città di pianura si chiude alla Tomba Brion: l'ultima inquadratura incontra l'ultima opera di Scarpa. In sala dal 2 ottobre 2025, il lavoro di Francesco Sossai — passato a Cannes 2025 (Un Certain Regard) — atterra nel paesaggio costruito ad Altivole.
Non è un debutto: nel 2024 la Brion è già in Dune: Parte Due di Denis Villeneuve. Stesso luogo, immaginari lontani — dal kolossal alla notte veneta —, invariato l'ancoraggio: il telaio scarpiano dello spazio.
L'impianto di Sossai muove due uomini dalle Dolomiti alla laguna veneziana. Da questa spinta nasce un itinerario in cui amicizia e architettura tengono insieme il percorso: la pianura, intesa come bordo, tra Belluno, Treviso e gli approdi d'acqua, diventa un territorio di confine — anche umano — dove i due compagni coinvolgono uno studente di architettura tra capannoni, ville stanche, bar che resistono e autostrade "fantasma". Lo sguardo sul Nord-Est trova malinconia e lucidità, ma anche una leggerezza ostinata che rimette in moto i corpi.
Qui la trama mette a fuoco il filo architettonico: il futuro architetto è il tramite; la Brion è il luogo in cui si impara a guardare. Dentro il memoriale convivono Venezia e Giappone in una visione umanista e sincretica che Scarpa traduce in passaggi, acque ferme e ombre governate. La stessa attitudine orienta il viaggio: raccogliere frammenti del presente, ricomporli in un disegno più ampio, alleggerire il rumore finché il paesaggio non torna a parlare.
Tutte le foto che accompagnano l'articolo portano lo sguardo di Filippo Poli, lo ringraziamo per averle condivise [profilo IG]
indice dei contenuti

Photo © courtesy of Filippo Poli
L'ultima architettura di Scarpa: Tomba Brion
Ai margini della campagna trevigiana, il memoriale affianca il cimitero di San Vito d'Altivole seguendone due lati in pianta a L. Una cerniera d'ingresso — il propileo con gli anelli intrecciati — separa e collega: da una parte il camposanto, dall'altra uno spazio autonomo fatto di percorso, specchi, soste.
Dentro, la sequenza è ordinata: vestibolo; padiglione della meditazione in legno, leggermente sospeso; cappella/edicola con taglio di cielo; arcosolio per i coniugi. Un muro inclinato ricuce il bordo e costruisce un secondo orizzonte sulla pianura.
Il getto è ruvido, inciso, pensato per il tatto prima che per la vista: le pelli in calcestruzzo trattengono il passaggio della luce e restituiscono ombre misurate. L'effetto è un silenzio operativo che invita a fermarsi. Un'opera totale in cui le parti si richiamano e chi entra trova il proprio passo. Anche il cinema ci ritorna: il luogo ordina lo sguardo prima della macchina da presa.

Photo © courtesy of Filippo Poli
Qui le culture dialogano. Venezia sta nell'elemento liquido che misura i passi e nei mosaici che trattengono il chiarore; il Giappone nei tagli di cielo, nella misura del vuoto, nella calma delle superfici. Tracce paleocristiane orientano soglie e direzioni; un lessico zen imposta ritmo e quiete. Gli anelli tengono insieme letture diverse — promessa coniugale ed eco gioachimita — e trasformano il passaggio in rito.

Photo © courtesy of Filippo Poli
La tessitura del calcestruzzo a vista conserva la memoria delle casseforme: nervature leggere, impronte, smussi anticapillari. Le fughe allineano le campiture e diventano giunti. La componente liquida è regolata da sfiori nascosti, canalette e pendenze minime. Nell'arcosolio, le tessere vitree diffondono un chiarore morbido; nel padiglione la struttura in larice è sollevata e ventilata; ferramenta e maniglie, in ottone o acciaio brunito, sono disegnate come piccole architetture.
Il complesso, avviato a fine anni Sessanta e concluso nel 1978, è frutto di affinamenti successivi. Un intervento conservativo terminato nel 2021 (a cura di Guido Pietropoli, già collaboratore di Scarpa) ha ricalibrato legni, superfici e mosaici, restituendo al luogo la sua misura: poche cose che chiedono tempo e attenzione.
Le fotografie di Filippo Poli







Photos © courtesy of Filippo Poli
© RIPRODUZIONE RISERVATA
pubblicato il:



